30 Maggio 2017 4 commenti

I’m Dying Up Here: come Vinyl e The Get Down, ma coi comici di Diego Castelli

Ancora anni Settanta, ma coi comici invece dei musicisti

Copertina, Pilot

I'm Dying Up Here (1)

Nell’ultimo paio d’anni, per ben due volte ci siamo imbattuti in show molto ambiziosi a) dedicati all’ambiente musicale degli anni Settanta, b) in onda su reti prestigiose, c) firmati da autori di culto… e d) cancellati dopo la prima stagione.
Parliamo ovviamente di Vinyl e The Get Down, che nonostante i nomi altisonati di Martin Scorsese e Baz Luhrmann (uniti ai marchi di HBO e Netflix) non sono riusciti a decollare come avrebbero voluto, rimanendo impantanati in una palude di costi troppo alti e ascolti troppo bassi.

Ora mi tocca chiedermi se succederà la stessa cosa alla nuova serie di Showtime, che sembra raccontare le stesse atmosfere e gli stessi anni, parlando però di un mestiere completamente diverso: il comico.
I’m Dying Up Here, che debutterà ufficialmente settimana prossima, il 4 giugno, potrebbe essere riassunta in una formula gustosissima: un drama sui comici. Creata da David Flebotte (produttore e sceneggiatore con un curriculum di tutto rispetto, da Desperate Housewives a Masters of Sex) e prodotta fra gli altri da Jim Carrey, la serie racconta gli anni Settanta attraverso la prospettiva di un folto sottobosco di stand-up comedians che si arrabattano raccontando barzellette in bettole di ordine spesso infimo. L’obiettivo è uno solo, la fama, da raggiungere magari attraverso un’ospitata dal mitico Johnny Carson (capostipite di tutti i David Letterman e Jimmy Fallon), a cui si può forse arrivare attraverso la rampa di lancio rappresentata dal rinomato locale di Goldie Herschlag, famosa scopritrice di talenti (interpretata dalla premio oscar Melissa Leo).

Il pilot, peraltro, si apre proprio così, con uno che ce l’ha fatta (Clay Appuzzo, interpretato da Sebastian Stan, il Bucky Barnes della Marvel), e tutti i suoi amici che guardano ammirato la sua rapida ascesa e (piccolo spoiler) la brusca discesa.

I'm Dying Up Here (2)

Più che dare altri dettagli sulla trama e i personaggi, che riservano anche qualche sorpresa e non voglio esagerare, mi interessa sottolineare un paio di elementi importanti. Quando guardavamo (e criticavamo) Vinyl e The Get Down, ci sembrava di scorgere poco sugo narrativo. Erano sì produzioni grosse e ambiziose, e di certo colpivano per la qualità della ricostruzione storica e per il senso di epica connesso a un mondo musicale in grande fermento. Dal canto suo, I’m Dying Up Here può mettere in mostra meno soldi, e parla di un argomento meno universale (anche se la stand-up comedy pura, poco radicata e praticata nel nostro paese, negli USA è una componente storica dello showbusiness). Allo stesso tempo, però, sembra essere scritta decisamente meglio.
Il concept garantisce la possibilità costante di inserire veri e propri pezzi di stand-up, che in quanto tali possono aprire improvvise e gustose finestre comiche, ma quello che conta è il contrasto fra quella comicità, unita alla brillantezza generale dei personaggi, e l’oscurità dei loro problemi personali, con le amicizie, gli amori, i successi e le sconfitte di persone che hanno scelto di far ridere la gente, ma non sempre hanno di che ridere per loro stessi.

I'm Dying Up Here (4)

Puntando forte sulla classica, malinconica doppia faccia del pagliaccio, sul dietro le quinte spesso doloroso di persone che per lavoro devono essere sempre allegre, Flebotte ha il grosso merito di mettere in scena uno show di persone vere, di personaggi che trasudano un’umanità che in Vinyl e The Get Down spesso non avevamo visto, troppo distratti dai lustrini, dalle righe di coca e dalle pettinature afro.
Elementi che in parte ci sono anche qui, ma che non riescono a offuscare la capacità degli autori di cogliere una qualche essenza della comicità all’americana, quel grumo di sensazioni non necessariamente positive che però, trasformate in satira, diventano specchio di un mondo e chiave interpretativa della realtà. Una serie, insomma, che scegliendo un periodo particolarmente caldo racconta i pregi della buona comicità, e il suo ruolo spesso sottovalutato nel mondo dello spettacolo e della cultura.

Il giudizio, ovviamente, non può essere definitivo. Il pilot ha una sua costruzione molto precisa e abbastanza chiusa, come se fosse un mediometraggio in cui i personaggi seguono un intero percorso che comprende sorpresa, dolore, impegno e crescita. Dobbiamo capire quanto sia lungo il respiro della storia, e dobbiamo anche valutare il peso specifico di tutti i personaggi, che per ora spiccano in modo non uniforme, alcuni più efficaci, altri meno.
Ma per quanto mi riguarda, da amante recente della stand-up comedy americana, I’m Dying Up Here è la prima, bella sorpresa dell’estate seriale 2017.

 

Perché seguire I’m Dying Up Here: Forse un drama sui comici non l’avevamo ancora visto, e l’impressione è quella di uno show che sa dove vuole andare e come farlo.
Perché mollare I’m Dying Up Here: Il pilot non riesce a chiarire quanto sia ampio il suo respiro. Potrebbe anche essere un buon episodio che esaurisce quasi tutto quello che aveva da dire, cominciando quasi subito a ripetersi.

I'm Dying Up Here (3)



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