Genius: la vita di Albert Einstein diventa serie tv di Diego Castelli
Geoffrey Rush nei panni dello scienziato e Ron Howard alla regia: serve altro?
Quando decidi di produrre una serie antologica che in ogni stagione racconti la vita e la carriera di un grande personaggio della scienza, può sicuramente essere una buona idea interpellare un regista che, dirigendo un film sulla vita di uno scienziato premio nobel, si è portato a casa quattro oscar e altrettanti golden globe.
Quelli di Nat Geo devono aver pensato la stessa cosa, visto che per la loro Genius, debuttata settimana scorsa, si sono portati in casa il buon vecchio Ron Howard, che una ventina d’anni fa commosse il mondo con il suo A Beautiful Mind, e che qui compare come produttore (insieme al fido Brian Grazer) e regista del pilot.
La prima stagione di Genius punta subito al bersaglio grosso, raccontando la vita, la carriera e la mente di quello che, parlando del Novecento, è probabilmente lo scienziato per antonomasia, cioè Albert Einstein.
Che poi “scienziato” è pure riduttivo, considerando che il faccione di Einstein, i suoi capelli grigi e ribelli, i suoi modi poco professorali e la portata storica del suo pensiero l’hanno trasformato negli anni in un’icona pop, un volto da maglietta, uno che viene spontaneo considerare una specie di parente, uno dei pochi volti davvero famosi della scienza, i cui campioni solitamente non ricevono le stesse attenzioni di quelli dello sport o del cinema.
Per raccontare la sua storia, Howard e soci puntano su un approccio collaudatissimo quando si tratta di mettere in scena la vita di persone famose per un particolare aspetto o abilità: concentrarsi cioè (anche) su tutto il resto, scoprendo l’umanità dietro la figura pubblica, l’uomo dietro la fama. E probabilmente pochi soggetti si prestano bene come Einstein a un’operazione del genere, visto che la sua vita – piena di amori, nemici, incontri, riflessioni filosofiche oltre che scientifiche – offre allo sceneggiatore di turno un ampio ventaglio di possibilità narrative, da aggiungere all’ovvio e imprescindibile “vediamo come Einstein è arrivato alla teoria della relatività”.
A questo punto vale la pena aprire una piccola parentesi, che chi ci segue da tempo già conosce, ma che vale la pena di ribadire: per quanto ci riguarda, il valore documentaristico di una serie tv di finzione ha un peso molto relativo. Questo perché riteniamo che documentari e libri di storia facciano già il loro mestiere mostrando le cose come stanno (o come stavano), mentre quando si parla di finzione bisogna accettare che una parte grande o piccola della storia venga piegata alle esigenze espressive della narrazione. Per questo ci sentite spesso criticare una storia che non funziona, ma solo di rado ci lamentiamo che il tal scudo non poteva esistere nella decade in cui è ambientata una serie, e cose del genere.
Il valore storico di uno show televisivo ispirato a fatti reali non sta nella sua capacità di insegnare date e fatti, quanto piuttosto nell’abilità di offrire una storia abbastanza accattivante da, piuttosto, convincere lo spettatore ad approfondire da solo l’argomento, a visione ultimata e nelle sedi più opportune.
In questo senso, Genius funziona benissimo. Tratta dal romanzo Einstein, His Life and Universe di Walter Isaacson e giocata su due linee temporali diverse, la serie racconta sia la giovinezza di Einstein, in cui il futuro scienziato cerca il suo posto nel mondo dell’università e della ricerca, sgomitando in un ambiente che sente troppo rigido e meccanico per le sue esigenze di studio e di crescita, sia la sua maturità, in cui il professore ormai famoso e iconograficamente riconoscibile si trova a temere il sorgere del nazismo, che in lui (ebreo di successo e famoso a livello internazionale) vede un facile nemico.
Gestendo la materia narrativa con lo stile che gli è proprio, un approccio pienamente hollywoodiano in cui la grande quantità di spunti non deve mai andare a scapito della comprensibilità, Ron Howard gioca il pilot come un thriller romantico in cui la voglia di emergere del giovane Einstein si trasforma lentamente nella necessità di resistere alle pressioni di chi vorrebbe mettere a tacere la sua voce. Sullo sfondo c’è un’idea della scienza come valore in sé e per sé, non solo come base di applicazioni pratico-ingenieristiche, ma come fondamentale base di partenza per l’accrescimento mentale, culturale e perfino spirituale dell’uomo.
L’inizio dell’episodio, che si apre su una scena di sesso con protagonista l’anziano scienziato, è una precisa dichiarazione d’intenti circa la volontà di approfondire la figura di Einstein a tutto tondo, senza limitarsi alla sua vita accademica, che comunque riceve l’adeguata attenzione, specie quando si tratta di raccontare in modi visivamente stimolanti le intuizioni del protagonista. Perché è anche bene ricordare che le sue idee più dirompenti, piuttosto che essere solo il frutto di conti barbosi e lente analisi, furono il parto di una mente così brillante da riuscire a concepirle quasi “dal nulla” (fra virgolette, sia chiaro), rivoluzionando una fisica che poi si sarebbe divertita a trovare le conferme di quelle eccezionali intuizioni.
L’operazione “tieni dentro tutto” non sempre funziona alla perfezione, soprattutto quando la necessità di mantenere salda nello spettatore l’immagine dell’Einstein-scienziato (anche quando si racconta dell’Einstein-amante, dell’Einstein-figlio e dell’Einstein filosofo e politico), finisce col mettere in bocca al personaggio parole e riflessioni matematiche anche in contesti stranianti, come se fosse uno Sheldon Cooper incapace di pensare ad altro.
E si potrebbe anche dire qualcosa di quell’accento tedesco che suona sempre come uno strumento un po’ goffo con cui inserire i personaggi in contesti non anglofoni: per quanto mi riguarda, o lo giri in lingua, oppure gli fai parlare un inglese normale, perché così dai l’impressione che la serie sia popolata di personaggi che “parlavano strano”.
Ma si tratta comunque di piccoli intoppi in un racconto che complessivamente funziona alla grande. Merito del pluricitato Ron Howard e della sua abilità di narratore molto classico ma adattissimo al racconto biografico (per lo meno di questo tipo di racconto biografico). Merito del budget a disposizione della serie, col quale ricostruire con grande dettaglio gli ambienti e i paesi in cui i personaggi si muovono. Merito ovviamente di ottimi attori, su cui spicca il premio oscar Geoffrey Rush nei panni dell’Einstein anziano, senza però dimenticare quello giovane, interpretato dal Johnny Flynn di Scrotal Recall.
Nel complesso, un’operazione riuscita, un nuovo interessante tassello nel mondo delle serie antologiche, che per una volta (insieme a Feud) raccontano qualcosa di diverso rispetto a squartamenti, omicidi e criminali.
Perché seguire Genius: la storia di Einstein è di per sé interessantissima, e viene raccontata con buon ritmo, belle immagini e bravi attori.
Perché mollare Genius: lo stile è quello arioso e preciso della classica biografia hollywoodiana, se puntate a qualche stravagante deviazione probabilmente non la troverete.