Homeland – Il finale della sesta stagione e House of Cards dietro l’angolo di Marco Villa
Non la sua migliore stagione, ma Homeland continua a mangiarsi tre quarti delle serie in circolazione
ATTENZIONE: SI PARLA DEL FINALE DELLA SESTA STAGIONE
“Ciò che deve accadere accade”, cantava il saggio della montagna. E la regola si è dimostrata valida anche in Homeland, arrivata a uno snodo narrativo tanto atteso quanto inevitabile. Anzi: talmente atteso e inevitabile, che la scelta è stata quella di contenere al minimo il pathos e quasi di depotenziare del tutto il momento. Ok, ho esaurito le prime righe spoiler-free e adesso posso dire chiaramente che sto parlando della morte di Peter Quinn. Nelle ultime stagioni, Quinn era una specie di bersaglio per i malintenzionati di tutto il mondo: sparato, rapito, intossicato, il povero ex membro delle truppe scelte aveva patito di tutto e l’intera sesta stagione per lui è stata un calvario. Sopravvissuto all’avvelenamento da gas con evidenti deficit fisici e con un carico ulteriore di fantasmi nella coscienza, Quinn affronta il classico percorso di crollo e risalita, diventando protagonista assoluto della serie negli episodi iniziali e finali, fino al sacrificio estremo per salvare quelli che sono i due grandi valori della sua vita: l’amore per Carrie (amore in senso lato) e l’amore per la sua nazione. Salvando Carrie e la presidentessa, Quinn dà un senso compiuto alla propria storia, iniziata nella seconda stagione.
Chi invece la propria storia la sta ancora scrivendo è Carrie, che da un lato prosegue il suo percorso di disimpegno dall’agenzia iniziato già nella quinta stagione, ma che da un altro lato addirittura aumenta il proprio impegno e guadagna peso politico, entrando nel cerchio ristretto dei consulenti della Casa Bianca. A differenza del passato, non è Carrie il motore dell’azione: al contrario, diventa una pedina sballottata qua e là da personaggi in grado di muovere fili che si trovano al di sopra della propria testa. È il prezzo da pagare quando si compie un salto di qualità: da sempre in controllo della situazione quando era nella CIA, si ritrova di colpo l’ultima arrivata, sospesa a mezz’aria tra gli operativi sul campo e i politici. Così è Quinn a fare il lavoro sporco e a trovare la casa sicura al centro della cospirazione, mentre arriva da Dar Adal l’avviso cruciale che salva la vita alla presidentessa. Carrie è in mezzo: corre da una parte all’altra, ma con poca lucidità, rimanendo sempre in balia degli eventi.
Una condizione anomala per lei, ma perfetta per descrivere tutta questa stagione. I due episodi finali danno quella botta di tensione che poche altre serie sanno garantire e per questo si arriva alla fine con una certa soddisfazione. Pensando a ritroso a questi dodici episodi, però, non si possono non far emergere diverse pecche. La sensazione è che gli eventi non siano stati distribuiti al meglio lungo l’arco delle puntate, con una prima fase di preparazione molto dilatata e una concentrazione di avvenimenti negli ultimi episodi. La prima conseguenza di questo squilibrio è quella di non chiudere adeguatamente diverse storie. Giusto per fare un esempio, nel corso della stagione ha un certo rilievo il personaggio del chief of staff della presidentessa, la cui morte viene liquidata con mezza battuta, esattamente come quella del procuratore generale, che fino a 30 secondi prima aveva un ruolo cruciale per la risoluzione del caso.
In questa stagione, Homeland ha masticato e poi sputato tutto quello di cui aveva bisogno, senza curarsene più di tanto. Basti pensare alla storia di Carrie avvocato dei deboli, che ha monopolizzato le prime puntate e che poi non è più stata nemmeno citata. Come contrappeso, abbiamo invece la scoperta del doppio complotto e la mezza redenzione di Dar Adal, che arrivano come un fulmine a ciel sereno nel breve volgere di qualche minuto.
Come detto, però, non si tratta di una brutta stagione, perché si mangia comunque tre quarti delle serie in circolazione. Certamente non è la migliore di Homeland, anzi, risulta forse la più debole, fatta salva l’improponibile terza stagione.
Uno dei motivi che la rendono comunque molto interessante è il tema delle fake news, argomento centrale del dibattito politico e civile del momento. Il modo in cui viene presentato è credibile e adeguato e riesce a mostrare tutta la filiera della produzione di false verità, riuscendo anche a fare un doppio salto carpiato sul tema del complottismo. Il momento in cui Dar Adal mette in guardia Saul sulla vera natura della presidentessa è un passaggio cruciale, perché riesce a rendere Homeland una serie che mette alla berlina il complottismo, ma allo stesso tempo lo alimenta: tutto quello che si è detto sulla presidentessa è falso, tutti quelli che erano coinvolti sono stati fermati, ma quando c’è la possibilità di aumentare il proprio potere, è difficile fermarsi. La deriva autoritaria e antidemocratica è lo spauracchio di tutti i complottisti americani e Homeland mette in scena una straordinaria concatenazione di eventi che fa sì che il peggior incubo dei fanatici della verità alternativa si realizzi proprio per colpa/merito loro. Un doppio salto carpiato, dicevo. Un tocco di scrittura che da una parte spiazza il pubblico con un finale inatteso e dall’altra lascia aperte strade interessantissime per il futuro e per la settima stagione. House of Cards è lì, giusto dietro l’angolo: che direzione prenderà ?