Prison Break: grazie del pensiero, ma non era necessario di Diego Castelli
Un ritorno di cui, pur nell’affetto, non si sentiva il bisogno
ATTENZIONE! SPOLER SULLA 5X01!
Anni fa scrissi un articolo dal titolo “serie che (non) durano”, in cui si affrontava il tema di quelle serie tv che, basandosi su un concept di corto respiro, potevano anche essere bellissime e famosissime nel loro primo anno di vita, salvo poi incontrare una rapidissima discesa.
Fra queste serie c’era sicuramente Prison Break.
Creata nel 2005 da Paul Sheuring, Prison Break raccontava di un uomo, Michael Scofield, che usava una smodata dose di intelligenza e furbizia per far evadere da una carcere di massima sicurezza il fratello Lincoln, condannato a morte per un omicidio che non aveva commesso.
Al di là di alcune specifiche idee, come il fatto che Michael (progettista della prigione) si era fatto tatuare tutto il corpo con strane figure che in realtà erano una piantina camuffata del carcere, Prison Break si impose immediatamente all’attenzione di pubblico e critica per il ritmo sincopato e una straordinaria capacità di costruire la tensione. Basata sul concetto di suspense caro a Hitchcock, che prevede la promessa esplicita di una situazione pericolosa che viene poi rimandata fino a far tremare lo spettatore, Prison Break applicava questo meccanismo con cura certosina e ossessione maniacale. Il risultato fu una prima stagione da cui non si riusciva a staccare gli occhi, e in cui la salvezza di Michael e soci divenne ben presto motivo di preghiera serale prima di andare a dormire.
Il problema, come accennato sopra, era il fiato corto: i protagonisti fuggivano dalla prigione già nel finale della prima stagione, e fu chiaro più o meno a tutti che Prison Break in quanto fenomeno mediatico era finita lì. La serie invece andò avanti per altre tre stagioni, e per quanto la seconda fosse ancora accettabile (ci si basava sul fatto che Michael aveva un piano preciso anche per il dopo-fuga), la terza e la quarta erano semplicemente una minestra riscaldata, in cui fu necessario trovare qualunque scusa per rinchiudere di nuovo Michael e dare il via a un nuovo piano di brillante escapismo.
A distanza di anni, malgrado le cicatrici di quell’inutile diluizione, Prison Break è ancora una serie che molti spettatori ricordano con piacere, ma che è ormai un oggetto del passato, e che tale sarebbe dovuto rimanere.
E invece no. Nella frenesia riciclatrice propria di questi anni, in cui non esiste un solo franchise che possa dirsi al riparo dal rischio di una ritorno/remake/reboot, FOX ha deciso che anche Prison Break andava riesumata, nelle forme di un vero e proprio sequel, con lo stesso autore e gli stessi protagonisti.
E mi spiace dirlo, visto che qui cerchiamo sempre di non avere pregiudizi, ma questa idea faceva acqua prima ancora di essere formulata. Non solo perché Prison Break si era chiusa sul serio, con un finale vero in cui il protagonista moriva, ma soprattutto perché, come detto, era un franchise che aveva fatto il suo tempo, che aveva già mostrato i suoi limiti, e un suo ritorno non avrebbe potuto interessare nessuno se non, forse, le stesse persone che si erano già stufate all’epoca.
Fatto sta che ora Scheuring ha dovuto fare i salti mortali, immaginando che la morte di Michael sia stata in realtà un’invenzione per non meglio precisati scopi. Questo è quello che succede nella premiere della quinta stagione, in cui Lincoln, tornato a essere un piccolo criminale dopo qualche anno di buona condotta, viene a sapere attraverso una lettera recapitata al vecchio bastardone T-Bag (???) che Michael potrebbe essere ancora vivo e rinchiuso in una prigione in Yemen. Contattata Sara – madre del figlio di Michael tenutasi occupata nel frattempo morendo in The Walking Dead e combattendo gli alieni in Colony – e recuperato un altro po’ della vecchia truppa, Lincoln decide di partire per lo Yemen, dove effettivamente trova un Michael nuovamente tatuato che finge di non riconoscerlo.
Perché? Cosa mai sarà successo? Ma soprattutto, ci importa davvero?
Scherzi a parte, non voglio neanche metterla giù troppo dura, perché se dovessi giudicare questo singolo episodio non potrei nemmeno dirvi che è “brutto”. Non lo è perché quella vecchia capacità di creare la suspense c’è ancora, tutto sommato i 40 e passa minuti scorrono via veloci, e alla fine rimane effettivamente un barlume di curiosità su ciò che sta davvero succedendo, complice una gestione intelligente della figura di Michael, che arriva solo alla fine come una specie di apparizione enigmatica e vagamente mistica.
Il problema è che in troppi punti ci si accorge di quanto l’operazione sia in realtà forzata e non necessaria. Scheuring si impegna per costruire una cospirazione misteriosa e complicata che giustifichi (o meglio, prometta di giustificare) la sopravvivenza di Michael, ma il risultato è una lunga serie di scene in cui i personaggi parlano troppo, costretti a ricordare il passato per accalappiare qualche nuovo spettatore e/o creare un previously perenne per quelli vecchi che non si ricordano tutto. Più in generale, suona tutto inverosimile: un accumulo di indizi, viaggi, agguati e mistificazioni che all’orecchio diffidente del vecchio fan suonano soprattutto come un “aspetta aspetta aspetta, non ragionare troppo, goditi il viaggio e basta, shhh, non parlare, guarda e applaudi”.
Eh no, purtroppo non ci riesce di lasciarci andare come se niente fosse. Non ci si riesce perché, per stare dietro al titolo, Michael è alla terza o quarta prigione, nemmeno mi ricordo più, e più che un racconto sull’intelligenza e l’intraprendenza sta diventando una storia sulla sfiga nera. Soprattutto, questo ritorno è abbastanza efficace per passare 40 minuti in allegria, ma non sufficientemente potente o rivoluzionario da toglierci la classica paura che viene dopo un ritorno di fiamma con una ex: all’inizio sembra tutto rose e fiori come una volta, e ripensi a tutto quanto di bello c’era fra di voi, ma quanto ci vorrà prima che gli stessi motivi che vi hanno fatto lasciare la prima volta si ripresentino per farvi mollare di nuovo, solo questa volta con ancora più acrimonia? Ecco, io davvero non vorrei rivivere quel momento, c’ho già l’ansia…