Love seconda stagione: l’amore a trent’anni, per davvero di Diego Castelli
Le grandi verità di Mickey e Gus
ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA SECONDA STAGIONE!
Quando ho accennato al Villa che volevo scrivere un pezzo sulla seconda stagione di Love, lui subito mi ha detto “sì però lo devi chiamare per forza Love – L’amore a trent’anni”.
E io DETESTO quando il Villa cerca di impormi i suoi titoli, io voglio solo ricevere approvazione e pacche sulle spalle, mica -pfiu- costruttivi consigli.
Però bisogna dire che questa volta ci sta. Perché questa serie, che ha il titolo e il tema più classico e banale del mondo ma che cerca di raccontare quel tema con la massima sincerità possibile, rappresenta una specie di rito di passaggio, una disamina scherzosa eppure dolorosa di una vita adulta che si contrappone a una gioventù sentimentale che copre tuttora una fetta predomaninante del mondo seriale.
Mi spiego meglio.
In tv l’amore la fa da padrone. Anche quando una serie non è esplicitamente un drama romantico, l’amore prima o poi arriva: fra due poliziotti che rincorrono i criminali, fra due avvocati impegnati in casi di alto profilo, fra due chirurghi che scopano invece di operare (sì Grey’s, parlo con te). Fra vampiri, viaggiatori del tempo, supereroi. La trama romantica c’è quasi sempre, di default, specie sulla tv generalista dove bisogna accalappiare la maggior parte di pubblico possibile.
E in genere quell’amore ha due caratteristiche: è potente, ed è contrastato.
Quando dico potente intendo che influenza quasi tutto l’agire e il pensare dei personaggi, e quando dico contrastato intendo “sul serio”, nel senso che a mettergli i bastoni fra le ruote arrivano tradimenti, sangue, alieni, strappi del tessuto spaziotemporale.
“Sì, vorremmo stare insieme ma sai, è scoppiata la terza guerra mondiale, al momento ci viene difficile, vediamo cosa succede nella prossima stagione.”
Questa è la gioventù. La maggior parte dell’amore seriale è “giovane”, anche quando di mezzo ci sono i cinquantenni, perché è un amore spaccatutto, che non fa sconti, e che per essere fermato ha bisogno delle bombe nucleari.
Con Love è un po’ diverso. E non solo perché a una comedy (per le quali, con le debite proporzioni, i discorsi fatti sopra valgono lo stesso).
A ben guardare, la base del concept di Love è poco diversa dallo schema di prima: un tizio e una tizia si amano, ma il loro amore è ostacolato.
A fare la differenza, però, è il “da cosa”. L’amore di Gus e Mickey è ostacolato da niente altro se non loro stessi. I loro desideri, le loro priorità, le loro aspettative.
Ecco, aspettative è la parola giusta. Cresciuti in un mondo ricolmo di stimoli, di discorsi e di spiegazioni, il nostro mondo internettiano e ultrapop, Gus e Mickey si sono fatti un’idea molto precisa di come dev’essere l’amore, e passano gran parte del tempo a confrontare quell’idea con ciò che effettivamente hanno: una relazione intensa e a tratti molto passionale, ma che trova continui ostacoli proprio nell’incapacità, per i due protagonisti, di viverla in maniera spensierata, senza le sovrastrutture concettuali (dette anche “seghe mentali”) che per l’appunto contraddistinguono la vita sentimentale degli adulti-ma-troppo di cui molti di noi fanno parte.
“L’amore a trent’anni” ha dunque tutto il senso del mondo, e ci troviamo di fronte alla necessità paradossale di considerare Love come una delle serie più realistiche in circolazione. Paradossale perché realistica non è, visto che è comunque una comedy americana in cui, per amor di interesse dello spettatore, succedono continuamente cose buffe e divertenti, e gli stessi personaggi non riescono a passare un minuto senza fare discorsi strambi e fascinosi. Voglio dire, la realtà fuori dallo schermo non è quella, ed è molto più noiosa di così.
Eppure, nella rappresentazione dell’amore da trentenni Love ci azzecca alla grande. Per tutta la seconda stagione, per certi versi ancora più ficcante e divertente della prima, Gus e Mickey hanno già superato lo scoglio del conoscersi e del capirsi, e potrebbero (teoricamente) passare il tempo semplicemente ad amarsi. Ma non possono, perché ciò che sanno o credono di sapere sull’amore si mette sempre di mezzo.
Da qui arriva l’insicurezza di Mickey, che per la paura di mandare come sempre tutto a puttane rischia davvero di farlo, e sempre da qui arriva l’atteggiamento paternalista di Gus, sempre gentile e cortese ma animato da una fortissima componente di so-tutto-io, preso com’è dalla certezza di essere abbastanza colto e intelligente da poter insegnare tutto a tutti, a partire dalla sua supposta fidanzata.
La carriera, le aspirazioni personali, la semplice paura di sbagliare, tutto si mette di mezzo a questi due personaggi così veri e imperfetti, in cui lo spettatore può identificarsi per davvero, a partire dal fatto che Gus è un cesso fotonico e non il classico bellone, o peggio ancora quello che sembra brutto e poi non lo è. Gus è brutto sul serio, e oltre a essere brutto è pieno di problemi e crede di saper gestire una relazione che invece gli scivola continuamente fra le dita. E lo stesso potremmo dire di Mickey, con l’unica differenza che Gillian Jacobs è stata creata da una qualche divinità dei boschi.
Tutta la seconda parte della stagione, e il finale in particolare, diventa allora emblematico: l’amore fra i due protagonisti viene seriamente minacciato dalla momentanea lontananza, una lontananza né eterna né tragica ma che per loro è già sufficiente perché sono incapaci di gestirla. Il fatto che Mickey tradisca Gus, poi ci ritorni, poi gli dichiari la sua volontà di costruire una relazione seria (ma solo per distrarlo in modo che non veda Dustin sgattaiolare fuori casa), non viene mai trattato con la forza insistita della drammone sentimentale, della telenovela brasiliana piena di svenimenti. Non serve, perché non è così che funziona veramente, e di corna al mondo ce ne sono troppe per pensare che ognuna di esse sia un affare di stato.
Qualcuno potrebbe considerare Love una serie disonesta, perché si chiama “Amore” e poi ci mostra un sacco di cose che sembrano andare nella direzione opposta, quella dell’inadeguatezza e dell’individualismo. Ma la chiave è proprio questa: Love ci dice che quello che normalmente consideriamo “amore vero”, in realtà è “amore da film”. L’amore vero è più simile a quello di Gus e Mickey: sincero, irresistibile, ma anche difettoso e fragilissimo. Non per questo meno sincero o meno debilitante.
Possiamo anche non crederci, sia ben chiaro, ma chi ha 30-35 anni, un po’ di esperienze e nessun coniuge, sa bene che qui dentro di realtà ce n’è parecchia, e guardarla ci fa stare solo bene.