Feud – Un affresco grandioso ma freddo di Diego Castelli
Ryan Muprhy ricorda un pezzone di Hollywood, ma manca l’emozione
Ormai se qualcuno pronuncia o scrive il nome di Ryan Murphy mi viene in mente l’immagine di un tritatutto. Non so come effettivamente l’autore originario di Indianapolis passi le sue giornate, ma io me lo immagino come un pazzo assetato di storie, uno che non fa altro che guardare, leggere, masticare e rimuginare.
Negli ultimi anni, impegnato in una continua produzione di sceneggiature, pilot, film e serie tv, Murphy ha messo sul piatto il suo amore per il mezzo audiovisivo tout court, giocando con i generi, con la Storia, con la cronaca, con i mezzi del racconto cinetelevisivo in ogni sua forma. Ha riportato in tv il musical con Glee, poi ha reinventato l’horror televisivo con American Horror Story, e poi si è preso valanghe di premi ri-raccontando con nuova forza storie già conosciutissime come quella di O.J. Simpson in American Crime Story.
Non gli è venuto sempre tutto bene, intendiamoci, e sono in molti a vedere un difetto in questa sua bulimia creativa. Ma al momento ci interessava inquadrare il personaggio, perché la sua nuova, ennesima opera televisiva è evidentemente una creazione di Ryan Murphy.
Parliamo di Feud, serie antologica di FX (e anche in quella parola, “antologica”, si vede la firma del suo creatore), che punta a raccontare grandi faide nel mondo della cultura e dello spettacolo. La prima stagione è dedicata ai contrasti fra due delle più grandi stelle di Hollywood di ogni tempo, Joan Crawford e Bette Davis, ma già si parla di una seconda stagione con Carlo e Diana, e via dicendo.
Forte di un cast d’eccezione – che comprende fra gli altri Jessica Lange (Crawford), Susan Sarandon (Davis), Alfred Molina (nei panni del regista Robert Aldrich), Stanley Tucci (Jack Warner), Catherine Zeta-Jones (Olivia de Havilland) e Kiernan Shipka (l’ex Sally Draper di Mad Men, qui interpreta la figlia della Davis) – Murphy prende un’idea di Jaffe Cohen e Michael Zam (co-creatori della serie) e la trasforma in una creatura pienamente sua, in cui l’amore per il grande cinema diventa l’unico faro su cui costruire tutta la baracca.
E intendiamoci, è una gran bella baracca, se la si guarda con l’occhio sognante del cinefilo e dell’amante del mito di Hollywood. Concentrandosi sul momento in cui le due grandi attrici, ormai a fine carriera e divise da una profonda rivalità, decisero di girare insieme un film in cui in quel momento credevano in pochi, ma che poi sarebbe diventato quel grandissimo classico dal titolo Che fine ha fatto Baby Jane?, Feud dipinge un grande affresco che è in primo luogo un atto d’amore, un tuffo in un tempo che non c’è più.
Giocando sulla bravura degli interpreti, sulla perizia nella ricostruzione di scenografie e costumi, e su un grande lavoro di ricerca sul contesto storico e cinematografico (anche se critici più vecchi ed esperti di me avrebbero diverse cose da ridire sul modo in cui le protagoniste vengono costruite), Murphy e soci si impegnano nel restituire un po’ della magia che il mondo di Hollywood si portava dietro quando non c’erano i cellulari e i siti internet, ma già esisteva la passione spasmodica per i divi e per la loro vita professionale e privata.
Una parte del lavoro di Feud sta anche qui, nella ricerca di fili rossi che collegano un mondo altrimenti lontano e luccicante, a certe dinamiche che vediamo ancora oggi: la sfida fra Crawford e Davis diventa allora lo scontro fra due personalità forti che non ci stanno a uscire di scena o semplicemente a cedere ad altri la luce dei riflettori, così come una certa, fastidiosa misoginia dell’industria e del pubblico (rappresentata dal classico “gli uomini invecchiando guadagnano carisma, le donne semplicemente invecchiano”), che valgono negli anni Sessanta di Feud, ma potrebbero valere anche negli anni Trenta e Quaranta quando le due protagoniste costruivano la loro sfavillante carriera, oppure oggi, quando una qualunque attrice trova sempre meno ruoli man mano che diventa più anziana e meno attraente.
L’impatto iniziale è dunque forte, e il pilot si porta dietro una robusta dose di fascino quasi “obbligato”, proprio perché parla di un tempo e di personaggi che risuonano mitici anche all’orecchio dei profani. Il problema però arriva quando smettiamo di vedere Feud come un occhio aperto sul passato, e cominciamo a valutarla come serie tv a se stante, come oggetto di intrattenimento che deve avere anche una sua forza specifica.
E dobbiamo farlo non solo perché c’è una robusta quota di pubblico che ai nomi di Joan Crawford e Bette Davis non sbarra gli occhi per l’entusiasmo (il che è del tutto legittimo), ma soprattutto perché una semplice ma appassionante cronistoria della vita delle due dive si potrebbe tranquillamente trasformare in un documentario. Nel momento in cui si decide di scrivere una serie tv, invece, il nobile concept non basta, e bisogna anche saper catturare l’emozione dello spettatore.
Da questo punto di vista Feud presenta qualche problema in più. Tutta presa dal desiderio di mettere in scena la mole di dati, fatti e curiosità legate al mondo di Hollywood e alla vita delle protagoniste, la sceneggiatura dimentica troppo spesso che i personaggi andrebbero costruiti e cesellati in modo da creare una vera tensione drammatica, che nel pilot manca in maniera abbastanza evidente.
Tolto il luccichio della ricostruzione storica, che diventa sfondo nel giro di poche decine di minuti, il pilot non riesce mai a decollare veramente perché non mette abbastanza sugo nella lotta fra le due protagoniste, limitandosi al gioco tutto sommato superficiale di due vecchie glorie che si fanno i dispetti.
Il paragone più semplice è quello con American Crime Story: anche in quel caso eravamo in presenza di una storia già conosciuta, e anzi molto più presente, nella testa degli spettatori, rispetto ai dissapori di due vecchie glorie del cinema. Eppure, il dramma che la scrittura riusciva a inserire nel vissuto dei singoli personaggi, facendoci percepire in maniera netta e dirompente la forza del loro dolore (e del loro stress, delusione, sete di potere ecc), era sufficiente a tenerci perennemente in sospeso, tesi e pronti a percepire ogni alzata di sopracciglio e ogni sfumatura d’espressione. Diventava la storia di quei personaggi lì, piuttosto che la semplice descrizione di una cosa accaduta nel mondo reale.
Con Feud questo non succede: è come se Murphy fosse riuscito a costruire una splendida casa delle bambole, di cui apprezzare ogni singolo dettaglio visivo e sonoro, ma all’interno della quale non succede niente di davvero significativo. La vita e le difficoltà delle due protagoniste, le loro passioni profonde, più che essere sbattute in faccia allo spettatore vengono descritte dall’esterno, addirittura con l’uso di finte interviste ad altre vecchie glorie, raccontando in maniera fin troppo didascalica le dinamiche lavorative e i temi tutto sommato banali che inevitabilmente vengono fuori.
Il risultato è che le pur brave Jessica Lange e Susan Sarandon non diventano Joan Crawford e Bette Davis, ingannando l’occhio e il cuore dello spettatore, ma rimangono quasi sempre Jessica Lange e Susan Sarandon, solo molto truccate.
Insomma, l’impressione è che ci si sia fermati un passo prima del dovuto, mostrando allo spettatore la bellezza immortale di un certo periodo e di certi caratteri, senza però avere la forza di sondarli nel profondo, trasformandoli in vera emozione piuttosto che in semplice giro turistico del passato.
Può darsi che i prossimi episodi migliorino in questo senso, anche se paradossalmente l’impressione è che il formato migliore sarebbe stato quello del film, più conciso e per questo più ficcante. Può anche essere che otto episodi, per raccontare questa specifica storia, siano effettivamente troppi, costringendo gli autori a riempire degli spazi che, a quel punto, diventano superflui.
Perché seguire Feud: per la forza visiva del grande affresco hollywoodiano e per il carisma del cast.
Perché mollare Feud: alla sceneggiatura manca la forza drammatica che il concept continua a suggerire, ma fatica a raggiungere.