30 Novembre 2016 2 commenti

The Affair 3: sempre più viscerale di Diego Castelli

Ci piace, eccome se ci piace

Copertina, Olimpo, On Air

The Affair (6)

Fra le molte (troppe?) serie che seguo, The Affair è forse la più enigmatica di tutte.
Non perché abbia una trama particolarmente complicata, o perché sia riempita di misteri e segreti, e nemmeno perché ci racconti cose così strane e lontane dal nostro vissuto quotidiano, da sembrarci fantastiche o fantascientifiche.
Casomai l’enigma nasce dall’esatto contrario: dalla consapevolezza che The Affair si vende fin dal titolo come una serie su una scappatella, su un tradimento, ma coinvolge lo spettatore con strumenti e livelli di senso che fino alla concreta visione non sono prevedibili.

Arrivati alla terza stagione, a una distanza tutto sommato breve dal pilot di due anni fa, la trama di The Affair è quasi irriconoscibile, nella misura in cui quel tradimento, quella relazione extraconiugale, ci sembra lontanissima nel tempo e nello spazio, sostituita dalle decine e decine di onde che quel singolo sasso aveva provocato nella vita altrimenti placida e ordinaria dei protagonisti.
Stuzzicando la mente dello spettatore con un’esca facile facile, di quelle buone per la soap opera, gli autori Sarah Treeman e Hagai Levi (anche se poi Levi se n’è andato) hanno costruito un’impalcatura in cui quella singola idea, quella del tradimento, diventa più che altro il pretesto per un affresco umano assai variopinto, in cui l’interesse specifico per la componente più romantico-sessuale della vicenda sbiadisce molto presto.

The Affair (2)

È una questione di stile e di approccio alla narrazione. Nella prima stagione The Affair aveva giocato soprattutto col concetto di punto di vista, presentandoci gli stessi avvenimenti da due prospettive diverse e facendoci capire che gli stessi eventi possono produrre interpretazioni differenti, senza che una prevalga sulle altre. Con l’andare degli episodi e delle stagioni, e con l’allargamento dei punti di vista anche a personaggi che prima non potevano mostrarci il mondo con i loro occhi, The Affair ha cominciato a occuparsi maggiormente del tempo e del progressivo lavorìo che il suo scorrere può produrre sulle vite e sulle coscienze dei vari personaggi.

La terza stagione, che fin da subito ci racconta ciò che è avvenuto dopo l’incarcerazione di Noah, è di nuovo un esempio di come gli sceneggiatori amino sballottare lo spettatore avanti e indietro, non tanto (o non solo) per il gusto della curiosità che nasce dal vedersi catapultati in un’ambientazione imprevista, ma anche per la capacità che questo pendolarismo temporale ha nel focalizzare l’attenzione su singoli dettagli, singole emozioni che i protagonisti provano in questa o quella situazione.

The Affair (3)
Così, vedere di botto Noah che respinge la ex moglie appena uscito di prigione (lui che in prigione ci è finito proprio per proteggere lei) ci fa drizzare le antenne in nome di una discordanza che le prossime puntate sapranno risolvere tramite flashback, ma che già ora ci restituisce tutta la forza di personaggi assai volubili, guidati da passioni spesso incontrollabili che continuano a logorare i loro sogni di una vita perfetta.
Perché l’altro grande tema di The Affair sta qui, nel concetto di responsabilità: per lungo tempo legati a una visione borghese della vita, fatta di famiglie perfette, lavori appaganti e spiagge immacolate, i protagonisti di The Affair hanno assistito alla progressiva distruzione di questa immagine idilliaca, iniziata con l’annegamento di un bambino e proseguita attraverso impulsi erotici che erano la spia di un disagio più profondo.

The Affair (1)

Dopo tre anni, in attesa di capire quanto ancora si proseguirà (l’idea iniziale era proprio quella di tre stagioni, ma la rete e gli autori stanno trattando), The Affair è ancora interessante proprio perché quella famosa scappatella era solo la prima pietra su cui fondare un racconto più complesso, non la semplice cronaca di un tradimento ma l’esplorazione narrativa e psicologia delle conseguenze di quel tradimento, riverberate in maniera incredbilmente vasta sulla vita di persone apparentemente straordinarie, ma in realtà molto più normali e simili a noi di quanto la loro bellezza e fragilità farebbe pensare.
Siamo arrivati al punto di odiarli un po’ tutti, proprio perché in loro vediamo certe bruttezze umane, certe debolezze e fragilità, che spesso il cinema e la televisione tendono a nascondere e che qui invece sono spiattellate in maniera spesso feroce, apparentemente senza filtri. Quindi li odiamo, ma non per questo non ci importa di cosa ne sarà di loro, proprio perché assolvono a una delle esigenze più antiche e profonde della narrativa tragica: mostrare allo spettatore cosa potrebbe succedere (cosa potrebbe succedere a lui, nel bene o nel male) se certe barriere che amiamo costruirci intorno venissero a cadere.

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