Mars: una miniserie di fantascienza, neanche troppo fanta di Diego Castelli
Documentario e fiction insieme per raccontare il futuro
Se si vuole passare tot parte del tempo libero a scrivere recensioni, è cosa buona mettere in conto un altro tot per leggere le recensioni degli altri, perché non si può pretendere di cogliere sempre tutto al primo colpo.
Rimane sempre il dubbio di quando leggerle: prima di aver visto, così ti fai un’idea? Dopo aver visto ma prima di aver scritto, così non ti perdi dei pezzi pur rischiando di copiare? Dopo aver visto e scritto, così non copi ma rischi di perdere dei dettagli?
Una risposta giusta non c’è, fatto sta che nel caso di Mars, nuova miniserie in sei episodi di National Geographic, ho letto quasi per caso un paio di recensioni prima di vedere il pilot, e non erano affatto positive, tanto da farmi avvicinare all’episodio con manifesta sfiducia e sbuffi vari.
Beh, non sono d’accordo.
Come si potrebbe già sospettare considerando la rete su cui va in onda, Mars è una (mini)serie un po’ particolare. Tratta dal libro How we’ll live on Mars, di Stephen Petranek, racconta dell’ambizione umana per la colonizzazione di Marte su due binari temporali diversi e intrecciati: il racconto documentaristico (con interviste ecc) di ciò che oggi si sta facendo per preparare la prima spedizione umana sul pianeta rosso, e il racconto finzionale (con attori e sceneggiatura) del primo viaggio Terra-Marte, che gli autori piazzano nel 2033.
In questi anni l’interesse per l’esplorazione spaziale è risalito dopo qualche decennio di minor attenzione post-allunaggio e, se allora la corsa verso il nostro satellite era soprattutto una questione di prestigio internazionale, oggi gli occhi vengono alzati verso le stelle con un sentimento di maggiore curiosità scientifica fomentata da tecnologie sempre più all’avanguardia, e dalla preoccupazione (qualcuno direbbe la certezza) che a un certo punto la Terra possa non essere più la casa ospitale che abbiamo conosciuto finora, e che non sembriamo in grado di tenere pulita e in ordine.
In questo contesto si è inserito il fenomeno The Martian, nato come libro assai bello (scritto da Andy Weir) e proseguito come film bello-ma-non-epocale di Ridley Scott, che ha solleticato la curiosità di moltissimi lettori/spettatori che forse non sapevano che i ragionamenti sulla colonizzazione di Marte fossero effettivamente a un livello così avanzato.
E ora arriva Mars, con cui National Geographic prova a inserirsi nel mondo ormai affollato e iper-pompato delle serie tv, senza perdere però la sua anima prettamente documentaristica.
Intendiamoci, non è la prima volta che vediamo documentario e fiction insieme, non solo perché esiste il genere della docu-fiction, ma anche perché, molto più banalmente, ci ricordiamo tutti certe puntate di Superquark in cui il buon Piero Angela ci raccontava di grandi personaggi storici e invenzioni del passato usando ricostruzioni con attori e copioni, tipicamente presi da produzioni inglesi.
Qui però l’intento è un po’ più ambizioso: è quello di creare un racconto appassionante come una serie tv, che dunque va al di là della mera illustrazione di concetti teorici, rafforzando quel racconto con alcune spiegazioni e interviste che hanno lo scopo di mostrare quanto quella finzione, che ci pare così fantascientifica, sia in realtà ancorata a una realtà ben concreta su cui molte persone stanno già lavorando.
Questa doppia ambizione, questo salto logico che è richiesto allo spettatore nel continuo dondolare fra una forma e l’altra, è ciò che ha convinto poco alcun critici americani, convinti che Mars, volendo essere sia serie tv che documentario, non riesca alla fine a essere nessuno dei due.
Devo dire che, personalmente, il pilot mi ha lasciato molto più entusiasta di così. Uno sforzo è effettivamente richiesto, perché saltare da personaggi inventati a persone reali, per quanto sia una cosa non nuova anche in certe biografie cinematografiche, è comunque un potenziale arresto della narrazione vera e proprie e dunque della tensione emotiva. Mi pare però che sia stato fatto tutto nel modo migliore: la parte propriamente seriale, che comunque è maggiore in termini quantitativi, funziona, ha buon ritmo, buoni interpreti (il protagonista è Ben Cotton, visto fra gli altri in The Killing), e sa usare con saggezza tutta una serie di cliché da film di fantascienza che saranno pure un po’ vetusti ma funzionano sempre bene.
Gli elementi più documentaristici diventano allora il vero plus, perché funzionano proprio come gli autori vorrebbero: ascoltare le interviste degli scienziati, degli imprenditori coinvolti nel progetto (su tutti Elon Musk, fondatore di Tesla e SpaceX, co-fondatore di Pay Pal), dello stesso Andy Weir, danno la sensazione che la fiction non sia l’idea fascinosa ma irrealizzabile di un romanziere fantasioso, bensì la rappresentazione di un futuro davvero possibile, e nemmeno così lontano.
Sarà che lo spazio mi affascina, sarà che quando sento discorsi tipo “ma perché andare nello spazio quando potremmo usare i soldi per sistemare quello che non va a casa nostra?” vorrei prendere qualcuno a ceffoni, fatto sta che il racconto di Mars mi ha appassionato proprio come una promessa: la promessa che quello che vediamo, oltre che divertirci nei termini che qui a Serial Minds conosciamo e viviamo ogni giorno, possa anche insegnarci qualcosa di preciso e concreto su ciò che troveremo dietro l’angolo da qui a dieci o vent’anni, quando si spera che saremo tutti ancora qui.
A parte forse nel caso in cui ci fosse qualche novantottenne alla lettura. In quel caso: vai ragazzo, tieni duro, siamo con te!
Perché seguire Mars: l’argomento è assai interessante, e la forma scelta per raccontarlo funziona.
Perché mollare Mars: non è la serie tv classica a cui i serialminder sono abituati, e di questa cosa bisogna tenere conto.