La 1×07 toglie ogni dubbio: dovete guardare Atlanta di Diego Castelli
Puntata eccezionale
Quando il Villa ha recensito Atlanta, qualche settimana fa, c’è andato cauto. Comprensibile l’orgoglio nel vedere Donald Glover diventare autore completo, così come necessario l’elogio di uno stile subito personale e maturo. Allo stesso tempo, alcuni paragoni obbligati come quello con Louis CK (comico brillante e spesso anche sguaiato e volgarone, capace di creare una delle serie più sottili, delicate e profonde gli ultimi anni) obbligavano a un pizzico di cautela, per non far partire i fuochi d’artificio troppo presto.
Da allora sono passate alcune settimane, e i successivi episodi di Atlanta hanno permesso di definire meglio un approccio e uno stile che nel pilot erano solo accennati. Al contrario di quanto si potesse pensare, e al contrario di quello che fa il citato Louis CK, la serie di Donald Glover non è un riflettore puntato sulla sua faccia, non è insomma un one man show dell’autore/attore/rapper. Forse il titolo della serie (che rimanda a un luogo, non a una persona) era già un indizio del fatto che Atlanta non racconta un personaggio, e forse nemmeno un gruppo di personaggi, bensì un ambiente e un’atmosfera. Nei primi sei episodi il punto di vista si è spostato più volte, seguendo questo o quel personaggio in situazioni più o meno assurde, con l’inserto di singole scene o addirittura singole immagini ancora più assurde, con il risultato di creare un mondo in parte realistico e in parte fantastico che ora ha una sua vita propria.
Invece che raccontarci di Earn, Atlanta ci ha raccontato il mondo in cui Earn si muove, spesso eliminando del tutto il protagonista dalla cornice. Un approccio diverso, parzialmente straniante, che sembrava quasi preludere a qualcosa, a una qualche esplosione di creatività ulteriore.
Che è arrivata con l’episodio sette.
Quando ieri sera ho visto la puntata ho dovuto scrivere al Villa una roba tipo “la 1×07 di Altanta è come il paintball di Community”, che per chi bazzica questo sito da un po’ è come dire “ecco il punto preciso in cui Atlanta smette di essere una buona serie e diventa una serie della madonna, di quelle che potremmo ricordare per anni”.
Cosa sarà mai successo in sto benedetto episodio? Una cosa concettualmente semplice: dopo averci fatto vedere il mondo reale di Atlanta (che reale-reale non è), Glover ha scritto e diretto un episodio, dal titolo “B.A.N.”, che costruisce anche il mondo mediale di Atlanta.
Nel concreto l’intero episodio è in realtà una puntata di Montague, un talk show completamente inventato che va in onda su Black American Network, canale completamente inventato, ed è intervallato da una serie di spot pubblicitari, ognuno completamente inventato.
In 21 minuti di episodio, Glover inventa e ritaglia 21 minuti di flusso televisivo, copiandone meccaniche e stili ma storpiandoli col suo gusto comico e surreale, ottenendo un risultato semplicemente eccezionale.
“B.A.N.” è un capolavoro perché mette insieme tutto: la satira sociale e mediale di un certo modo di fare e proporre televisione (la ricerca compulsiva dello scontro, le pubblicità che ottenebrano il cervello); il simil-documentario tipicamente zuccheroso ed edificante di tanta tv spazzatura; la riflessione per nulla banale su alcuni temi scottanti, che qui vengono filtrati della prospettiva local e black tipica dei personaggi della serie. Meraviglioso da questo punto di vista tutto il dialogo fra Paper Boi, ospite di Montague, e un’attivista per i diritti delle persone transgender. Combattendo strenuamente contro una logica televisiva che punta tutto sul ritmo e lo scontro verbale, e che quindi lo limita molto nella sua possibilità di costruire un discorso coerente, Paper Boi riesce a far passare un concetto semplicissimo, cioè che l’eccesso di politically correct che viviamo quotidianamente in tv e su internet è semplicemente un controsenso che, da potenziale difensore dei diritti civili, diventa sinonimo di oppressione della libertà di espressione.
Con un equilibrismo finissimo e pericolosissimo, Paper Boi (e Glover dietro di lui) rivendica il suo diritto a fottersene completamente di Caitlyn Jenner, l’ex atleta diventato donna e finito sulle copertine di giornali e riviste per mesi, diventando il simbolo della libertà d’identità sessuale. A un certo punto Paper Boi sgancia una bomba clamorosa che suona più o meno così: “Non mi frega niente di Caitlyn Jenner perché sta facendo quello che i ricchi uomini bianchi hanno sempre fatto, cioè tutto quello che vogliono.” Il cambio di prospettiva, che sposta il punto di vista dalla questione dell’identità sessuale a quella di un’altra minoranza che ha già i suoi problemi e vorrebbe potersene occupare, è uno schiaffo in faccia a certo perbenismo compulsivo ed esclusivamente di facciata, che pontifica per qualche giorno o settimana su un certo tema, per poi passare ad altro dimenticandosi completamente di quanto fatto fino a quel momento.
Senza mai mancare di rispetto a nessuno (e questo è un punto fondamentale) Glover ci racconta l’assurdità di un mondo mediatico che, con la scusa dell’integrazione e della bontà, punta soprattutto a importi le sue priorità.
In parte è una ripresa della nota teoria dell’agenda setting, quella per cui i media ci dicono non tanto cosa pensare, ma “su cosa pensare”, eliminando argomenti dal dibattito pubblico man mano che eliminano notizie. Nel suo piccolo, Paper Boi denuncia la sua impossibiltà a farsi i fatti suoi e della sua comunità, risucchiato in un vortice televisivo che pretende una sua opinione su alcuni temi precisi, e possibilmente un’opinione provocatoria.
In tutto questo, nella sua improvvisa e vertiginosa profondità, B.A.N. è anche un episodio maledettamente divertente, che proprio dal suo fregarsene di certe convenzioni e giudizi imposti prende a braccetto lo spettatore e gli consente, per pochi minuti, di essere se stesso, di ridere di ciò che ha voglia di ridere, senza sentire il fiato sul collo dell’ennesimo amico agguerritissimo che ti vede fare una battuta su facebook e di dice “tu ridi, ma…”. Niente ma, ogni tanto si può anche ridere e basta, e non c’è verso che i problemi di questo mondo possano venire da una risata che ti fai nel salotto di casa tua. Tanto più che – vedere twist finale dell’episodio – le categorie di buono e cattivo, di vittima e carnefice, spesso possono essere più sfumate di quello che ci raccontano…
PS I sottotitoli italiani di Atlanta li stanno facendo le bellissime persone Itasa, ma al momento sono leggermente indietro. Per tutti coloro che non vogliono (o non riescono a) seguire le serie con i sottotitoli inglesi, spero che a Itasa leggano questo articolo e si spiccino (detto con tutta l’ammirazione e la riconoscenza del caso).