Westworld: le 10 cose migliori viste nel pilot di Diego Castelli
È arrivato il momento di approfondire!
Sabato scorso il povero Francesco Martino vi ha parlato del pilot di Westworld, ma per quanto lo desiderasse non ha potuto fare alcuno spoiler, finendo così per limitare la sua recensione a un invito alla visione (sento ancora la sua frustrazione arrivare fino a qui come una vergenza nella Forza).
Ora però il pilot è andato in onda, pure in Italia, e dunque è il momento di approfondire la questione. E siccome di cose da dire ce ne sono tante, e io l’articolo l’ho scritto mezzo di notte e mezzo in pausa pranzo, ho pensato di fare un bell’articolo a punti, più comodo per me ma forse pure per voi.
Ecco allora le dieci cose migliori viste nel pilot di Westworld, cinque + cinque, con una piccola perplessità finale.
ATTENZIONE SPOILER!
1. La metafora divina
Nella costruzione del sistema dei personaggi di Westworld, Nolan e compagni imbastiscono una metafora divina tanto esplicita quanto affascinante. Le divinità, a Westworld, siamo noi, gli umani diventati così padroni della propria tecnologia, da essere in grado di assurgere a un livello successivo dell’esistenza, in cui la sfida non è sopravvivere alle malattie o alla fame, bensì riuscire a fregiarsi del titolo indispensabile di ogni divinità: la capacità di dare vita a creature a propria immagine e somiglianza.
Li indizi che suggeriscono la metafora divina sono tanti ed espliciti: già a partire dalla sigla si introduce un’idea di ingegneria fantascientifica dietro la creazione di creature che, a occhio superficiale, riteniamo più che mai “naturali”, come uomini e cavalli. Ma poi ci sono la visione degli eventi dall’alto (appunto da una prospettiva divina); la divisione fra Paradiso (i luoghi dei creatori), Terra (dove i robot agiscono quotidianamente), e Inferi (i piani interrati dove i robot difettosi vengono spediti per l’eternità); il richiamo all’Uomo Vitruviano di Leonardo, che era rappresentazione “perfetta” dell’uomo e qui diventa struttura di contenimento e preparazione degli androidi.
Se gli uomini sono diventati divinità, non si tratta però di divinità cristiane, perfette e buone. Siamo più dalle parti degli dèi dell’antica Grecia, pieni di difetti e istinti, che trasformano le loro creature in marionette per giochi di potere, lussuria o ambizione.
2. La metafora narrativa
Accanto a quella divina c’è poi un’interessante metafora narrativa: le azioni degli androidi all’interno di Westworld sono rigidamente controllare da degli “autori” che, come gli sceneggiatori di una serie tv o gli scrittori di romanzi, decidono cosa deve accadere a Westworld per intrattenere i loro spettatori. In realtà il paragone più azzeccato sarebbe quello con certi videogiochi di ruolo, dove il giocatore prende possesso di un avatar che si inserisce in un mondo apparentemente vivo e indipendente da lui, e lo penetra con le sue azioni, modificandone apparentemente le sorti ma restando in realtà all’interno di una griglia di possibilità predeterminate e previste da chi il gioco l’ha elaborato.
La trama globale di Westworld prende le mosse proprio dallo spezzarsi di questo rapporto di causa-effetto, quando i personaggi fittizi del mondo di gioco riescono (riusciranno) a spezzare le catene della sceneggiatura per cominciare a scrivere la loro propria storia. In un certo senso, il probabile caos che si genererà a Westworld è figlio del successo dei suoi creatori: non c’è cosa migliore o più auspicabile, per un narratore, di riuscire a creare personaggi che siano liberi e imprevedibili perfino a lui stesso. Anche se questo, ovviamente, comporta molti rischi.
3. Il concetto di destino
Strettamente collegato e quello sulla narrativa è il ragionamento sul destino. Come ne Il giorno della marmotta, i robot di Westworld sono costretti a ripetere azioni sempre uguali, schiavi di un destino scritto da altri (gli uomini-dèi) e su cui non hanno alcun potere di influenza. Casomai è il contrario: solo gli uomini, che siano autori o visitatori, hanno potere e diritto di entrare nel destino dei robot per cambiarlo.
Il twist arriva con la consapevolezza: proprio come nel film con Bill Murray, in cui la differenza fra il protagonista e i suoi amici stava esclusivamente nella coscienza (solo sua) di vivere una giornata sempre uguale, così i robot di Westworld sembrano destinati a prendere coscienza della loro condizione di schiavi e strumenti. La foto con cui il “padre” di Dolores comincia a questionare la loro natura è il simbolo di uno sguardo che improvvisamente, quasi per caso, riesce a elevarsi sopra la banalità delle cose umane (pardon, robotiche) per cogliere un’immagine più ampia, come i cari e vecchi abitanti della caverna di Platone, che passano la vita a guardare ombre della realtà, finché non riescono effettivamente ad alzarsi in piedi e girarsi verso la luce.
4. La metafora umana
Come in ogni storia fanta-robotica che si rispetti, anche Westworld pone implicitamente allo spettatore la fatidica domanda: cosa vuol dire essere “umani”? Domanda da un milione di dollari che la filosofia si pone dall’alba dei tempi, dal primo momento in cui un uomo si è chiesto qual è il confine fra un ammasso di cellule, ossa e muscoli, e una “persona”. Nella sua storia, la fantascienza ha preso questa domanda e le ha dato concretezza nella figura dei robot (o androidi, o come volete chiamarli), esseri che diventano così intelligenti e simili a noi da farci chiedere quali siano le reali differenze, piuttosto che i punti in comune. Ogni autore ha avuto poi il diritto/dovere di scegliere le sue risposte, o le sue non-risposte, dando peso a questa o quella componente.
In Westworld questo è il tema centrale, perché la storia racconta proprio dell’emancipazione delle “attrazioni” dal loro ruolo di semplici macchine. L’accento, almeno in questo pilot, è posto sugli errori e le stratificazioni: gli sbagli dei creatori garantiscono imprevedibilità ai robot, così come la continua sovrascrittura di personalità e programmi di comportamento permette ai personaggi sintetici di sviluppare una forma di coscienza come derivato dell’esperienza. È un discorso ancora agli inizi, che troverà continuo sviluppo probabilmente fino all’ultima puntata della serie. Le basi però sono state gettate, e la vicenda di Dolores cercherà di sviscerare la questione in tutti i modi possibili.
5. Il gioco sui punti di vista
Se l’impianto filosofico della serie è abbastanza limpido, per quanto tutto da esplorare, la messa in scena deve poi andare dietro a quell’impianto per illustrarlo nella maniera più efficace possibile. Nolan azzecca quasi tutto, partendo da una sapiente gestione dei punti di vista. Il pilot inizia seguendo Teddy, vedendolo arrivare in città, guardandolo rifiutare la richiesta di una “gita” a caccia di banditi, fino all’incontro con Dolores. A meno che non abbiate passato le ultime settimane a conoscere ogni possibile dettaglio del cast, questo inizio di episodio non ci suggerisce che Teddy sia un robot, ma anzi il contrario. Quando a un certo punto scopriamo la sua natura sintetica, in una scena molto drammatica in cui il cattivo (Ed Harris) è un umano in vena di stupri, la trappola emotiva è già scattata: il primo personaggio con cui lo spettatore si identifica è un robot, e da lì in poi non avrà più difficoltà ad accogliere il loro punto di vista. Più in generale, tutta la serie suggerisce l’identificazione del pubblico con gli androidi (in nome di una comune ricerca di se stessi), piuttosto che con gli umani del futuro.
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