Luke Cage, Netflix e gli eroi a chilometro zero [No Spoiler] di Diego Castelli
Luke Cage è il nuovo esempio delle strategie vincenti di casa Marvel-Netflix
AVVERTENZA: QUESTA RECENSIONE/RIFLESSIONE SI RIFERISCE SOLO AI PRIMI TRE EPISODI DI LUKE CAGE
Ho visto soltanto i primi tre episodi di Luke Cage – non ho smesso di odiare sta cosa degli episodi tutti insieme, un povero cristo non può avere impegni nel week end che in due-giorni-due è indietro rispetto al mondo – ma c’è un discorso che merita di essere fatto già ora, in attesa di parlare compiutamente della stagione, quando avremo visto tutto.
Non credo servano chissà quante parole per dire cos’è Luke Cage, terza incarnazione della collaborazione fra Marvel e Netflix che, dopo Daredevil e Jessica Jones, porta sul piccolo schermo un altro eroe cartaceo, nero e invulnerabile, in attesa di Iron Fist e prima della miniserie che metterà tutti insieme, Defenders.
Con Daredevil Netflix aveva piazzato assai in alto l’asticella della qualità dei supereroi da piccolo schermo, proponendo un prodotto più maturo e accattivante rispetto agli altri superumani in calzamaglia del mondo televisivo, e aveva fatto subito capire di essere “diversa”.
Allo stesso tempo, dovevamo aspettare di vedere almeno un’altra serie Marvel-Netflix, meglio altre due, prima di poter avere uno sguardo complessivo sull’operazione messa in piedi dal connubio fra il colosso dei fumetti e la piattaforma di streaming più famosa al mondo.
Luke Cage, già in questi primissimi episodi, ci permette di trovare quello sguardo, e di comprendere appieno (non solo come ipotesi) le direttrici editoriali e stilistiche che stanno muovendo l’agire di Netflix.
Il tentativo, abbastanza prevedibile, era quello di creare qualcosa che facesse sì parte del grande mondo Marvel, ma che fosse anche riconoscibile in quanto Netflix, senza possibili fraintendimenti rispetto alle altre incarnazioni cinetelevisive della Casa delle Idee.
Allo stesso tempo, era anche necessario che ognuna delle nuove serie di Netflix avesse una sua propria cifra, un valore intrinseco e inconfondibile che la rendesse unica.
Se Daredevil e Jessica Jones ci avevano già suggerito molto in questo senso, Luke Cage esplicita definitivamente la strategia con cui Netflix è riuscita a raggiungere il primo obiettivo: puntando cioè sulla componente “local”. Fin dalla scelta dei supereroi di cui raccontare le gesta, Netflix ha puntato a figure in qualche modo minori, ma soprattutto geograficamente più contenute, legate a precisi territori e orizzonti di azione.
Tenendosi bene alla larga dagli squilli colorati e roboanti (e probabilmente troppo costosi) degli Avengers, Netflix è scesa dai cieli attraversati da dèi scandinavi e alieni intergalattici per sporcarsi nel sudiciume dei vicoli e nel torbidume delle mafie. Se Daredevil è tradizionalmente legato a Hell’s Kitchen, ora Luke Cage è emanazione specifica di Harlem. Supereroi a chilometro zero, quindi, biologici e naturali, da prendere al mercato rionale. Il discorso vale anche per Jessica Jones, che “supereroe” non lo è nemmeno, avendo rinunciato al costume per fare la detective privata. Tutti e tre i personaggi affrontano nemici che, potenziati o meno, hanno un raggio d’azione limitato, legato a una dimensione esclusivamente cittadina, se non meno. E quando ci si allontanano, come nella seconda stagione di Daredevil, percepiamo comunque il desiderio di tornare rapidamente ai cattivi come Wilson Fisk, anch’egli radicatissimo sul territorio, come potremmo dire se parlassimo di un partito politico.
Se da una parte questo approccio poteva depotenziarli, a fronte del luccichio degli eroi del cinema, in realtà gli ha donato un’identità precisa, un realismo più vibrante, e ha permesso agli autori di esplorare strade e sapori che le grandi installazioni cinematografiche possono solo sfiorare. Da qui arrivano le dinamiche molto più personali, le riflessioni più filosofiche, i dubbi e le domande che questi eroi rigorosamente imperfetti possono porsi sembrando più umani e vicini allo spettatore.
Facendo un paragone, è facile vedere come una scelta di posizionamento meno netta abbia finito col minare il successo di una serie come Agents of SHIELD: in quel caso, la “mezza via” del respiro planetario dei personaggi, a fronte però dell’impossibilità di usare gli eroi conosciuto in tutto il globo, ha finito col rendere zoppicante la creatura di ABC, a prescindere dagli altri pregi e difetti più puntuali di cui abbiamo parlato in questi anni. Non è un caso, forse, che questa stagione di Agents sia iniziata con le fiamme di Ghost Rider, per piazzare un supereroe “vero” in una serie che ne ha sempre sentito la mancanza.
Con il suo approccio rigorosamente local Netflix ha avuto buon gioco a dare uno stile preciso alle sue creature, riuscendo contemporaneamente a tenerle saldamente all’interno del mondo Marvel (da cui comunque provengono e in cui vantano una tradizione ben precisa) e a rispariamare qualche soldino, perché le evoluzioni di Daredevil e Luke Cage, per quanto le si voglia pompare, non saranno mai costose come quelle di Iron Man (per lo meno di un Iron Man decente).
Se invece passiamo alla caratterizzazione delle singole serie, è facile vedere come, al netto di uno stile visivo simile e di un’ambientazione in qualche modo comune, ogni eroe e ogni serie abbia le sue proprie caratteristiche, visive e narrative. Se Jessica Jones introduceva un elemento di maggiore personalizzazione rispetto a Daredevil (di fatto il cattivo di Jessica Jones ce l’ha su solo con lei o quasi), Luke Cage si preoccupa invece di ribaltare la prospettiva supereroica del Diavolo di Hell’s Kitchen: Matt Murdock è un avvocato che, in nome della giustizia, indossa un costume che gli permette di riparare i torti che la macchina burocratica ufficiale non è in grado di affrontare. Matt Murdock, insomma, è davvero se stesso quando insossa il costume e picchia i cattivi, in un processo che sa di liberazione, di spinta volontaria.
Luke Cage è diverso: i primi episodi insistono molto sull’amore di Luke per la sua privacy, e sulla sua ritrosia a usare poteri che non ha mai chiesto, e che non vorrebbe mostrare a nessuno. Ovviamente, però, la sfiga ci si mette di mezzo, e l’attacco personale perpetrato dai criminali di turno impedisce al protagonista di nascondersi: vengono così spezzate le riserve che già si erano viste nell’apparizione di Luke in Jessica Jones, e ci ritroviamo fra le mani un eroe in qualche modo “imprevisto” (dal suo punto di vista) ma non per questo meno efficace, letale o godurioso da guardare. Un eroe peraltro senza maschera, che a quel punto, paradossalmente finisce con l’essere ancora più esposto e visibile rispetto ad altri suoi “colleghi”.
Il resto lo fa un’ambientazione che punta molto sull’anima black del personaggio, non solo in termini di immagini e suoni (vedere l’insistenza sul jazz e sul blues) ma anche di dinamiche sociali e politiche: tutta la trama di Luke Cage gira intorno a (ex) ragazzi sbandati, cresciuti in quartieri difficili, a viscidi criminali che puntano a lucrare sulle opere di ristrutturazione dei quartieri più poveri, a tradizioni culturali pienamente radicate nel quartiere che Luke si trova a dover risanare, in maniera anche più forte rispetto a quando avvenuto in Daredevil, dove la componente local era soprattutto una questione stilistica e scenografica, prima che politica o ideologica.
Luke Cage, pur non avendo ereditato (per fortuna) certi elementi troppo smaccatamente anni Settanta dell’originale personaggio cartaceo, ci restituisce però un eroe culturalmente molto definito – vedere anche la passione di Luke per certi fumetti o romanzi di genere – appartenente a una minoranza che in lui può riporre una speranza di riscatto senza che la cosa diventi in alcun modo stucchevole (come sarebbe successo se i cattivi fossero stati bianchi). Luke Cage (interpretato da un ottimo Mike Colter) è dunque un eroe molto diverso dai divi hollywoodiani visti al cinema, ma è altrettanto riconoscibile rispetto agli altri personaggi della casa Marvel-Netflix, in nome di una varietà interna che riesce però a costruire un tutto coerente.
Da questo punto di vista, Netflix ci sta anche addestrando alla visione di Defenders, che in nessun modo potremo/dovremo considerare come una versione sfigata degli Avengers. Andrà piuttosto considerata come l’espressione di un sottobosco supereroistico che il mondo Marvel ha sempre coltivato e nutrito, e che sul piccolo schermo troverà espressione nell’unione di alcuni guerrieri della strada che, proprio in virtù di questa loro vicinanza alla gente comune, potranno apparirci più veri e genuini rispetto ai giganti verdi da mettere sulle t-shirt.
Perché seguire Luke Cage: si inserisce bene nel mondo Marvel-Netflix, offrendo la consueta dose di qualità visiva e solidità narrativa.
Perché mollare Luke Cage: gli altri supereroi Netflix non vi piacciono, difficilmente Luke Cage vi farà cambiare idea.