Del perché Stranger Things è come una fiction di Rai Uno. E no, non è un insulto. di Diego Castelli
Ragioniamo meglio su una serie che ci piace anche più del previsto
Una questione che si impone
Nell’ultima settimana, sette miseri giorni trascorsi dalla nostra recensione del pilot a oggi, Stranger Things ha fatto sensazione: migliaia e migliaia di figli (o nipoti) degli anni Ottanta, spesso cinici o incazzati con la vita, ridotti a cuccioloni con gli occhi a cuore e il magone nostalgico piantato in gola.
Vale dunque la pena di riparlarne, soprattutto nella convinzione (soggettiva ma assai condivisa) che in Stranger Things ci sia qualcosa in più di quello che colpisce lo sguardo al primo giro di giostra.
Ci piace Stranger Things, ci piace tanto, forse più di quanto sarebbe lecito aspettarsi da una storia del genere narrata nel 2016. In fondo si tratta di un racconto già sentito mille volte – coi suoi ragazzini eroi, i mostri e le dimensioni parallele – e per quanto il giochino della nostalgia e del citazionismo spintissimo abbia un peso bello robusto nell’entusiasmo collettivo per la serie, sarebbe facile trovare molti altri esempi di show televisivi ipercitazionisti ma non per questo ugualmente apprezzati.
Cosa c’entra Rai Uno?
Il titolo di questo articolo è un po’ provocatorio, giusto per incuriosire subdolamente qualche potenziale lettore in più, ma non è sparato lì a cazzo di cane. Quando si parla di tv italiana, che ci si lavori intorno o che si sia semplici appassionati, la parola più frequentemente associata alle fiction di Rai Uno è “rassicurante”. Dietro questo termine si nasconde la precisa strategia editoriale e comunicativa della prima rete pubblica del nostro paese, che da sempre cerca di rivolgersi in maniera piana e pacata alla fetta più larga possibile di popolazione italiana, con particolare riferimento, specie nell’ultimo decennio, agli spettatori più anziani (diciamo dai 50-55 anni in su). Che piaccia o meno – e noi si sa, non siamo grandi fan – la fiction di Rai Uno si pone obiettivi precisi e spesso li raggiunge: raccontare storie di diversa vocazione (comica, storica, religiosa, politica) conducendo per mano lo spettatore in un percorso che sia divertente o interessante, ma comunque sicuro, mai violento o destabilizzante. Per l’appunto, “rassicurante”.
Per i nati delle generazioni più recenti, la fiction di Rai Uno è spesso insopportabile, con rare eccezioni: ci sembra vecchia, lenta, buonista, zuccherosa, senza nemmeno andare a toccare gli aspetti più tecnici della sua realizzazione. Un giudizio che, in assoluto, potrà anche essere vero o verosimile, ma che nulla toglie alla forza di quel tipo di prodotto sul target a cui fa riferimento.
Ebbene, l’impressione è che Stranger Things sia per noi trenta-quarantenni (e per i ventenni allevati nello stesso solco) quello che Don Matteo è per i sessanta-settantenni. Ed è una cosa bellissima.
I mitici anni Ottanta
Tutto parte dalla specifica forza di una parte del cinema americano degli anni Ottanta: un decennio che si può far partire da appena prima (diciamo da Star Wars) e si può far finire un pochino dopo (arrivando magari a Terminator 2 e Jurassic Park), ma che ancora oggi mantiene una sua altissima riconoscibilità, spesso legata a singoli registi dalla particolare sensibilità come Steven Spielberg, Robert Zemeckis, James Cameron o George Lucas.
In questi autori, pur diversi fra loro e operanti in un contesto comunque variegato, risorge la volontà e il piacere di produrre un cinema realmente “popolare” (se non addirittura “famigliare”), senza però rinunciare alla creatività e allo stile. Il loro è un cinema sognante, fantasioso, artigiano, che manda a memoria le lezioni del cinema classico per riaggiornarlo alle esigenze della loro contemporaneità, mettendo lo spettatore e le sue emozioni al centro di tutto. Ed è un cinema che, per avendo caratteristiche sue peculiari, coltiva parentele e sovrapposizioni con quello più macho e machista degli Stallone e degli Schwarzenegger ma anche con la fioritura di tante fortunate saghe horror in cui l’affetto per l’iconico “mostro” diventa superiore all’odio che si dovrebbe provare per le sue malefatte.
(Qui ci starebbe pure qualche ragionamento sulla Guerra Fredda, e su come quel clima di tensione favorì pulsioni devianti ed evasive, nelle terre del fantastico da una parte, e alla ricerca di eroi cazzuti e ironici, dall’altra. Ma finiremmo troppo lontano.)
Ancora distante dalle pop-sperimentazioni di Tarantino o dai cyber-deliri di Matrix, il cinema mainstream degli anni Ottanta finisce per lasciare un’impronta molto forte soprattutto sul pubblico più giovane, cullandolo dentro pomeriggi pieni di storie solide, dritte, corpose, in cui trovano spazio eroi positivi, ragazzi ardimentosi, avventure senza età, e dove l’ingenuità della fanciullezza si fonde con la forza del coraggio e la magia di mondi fantastici.
Un’influenza che ovviamente, anche grazie alle repliche televisive, arriva ben oltre gli anni Ottanta, lasciando a maturare i suoi semi anche nelle generazioni successive e arrivando ai nostri giorni, quando la viralità di internet diventa bacino perfetto per il recupero e la celebrazione dei vecchi cult e dei primordi di cultura nerd che ora riguarda con orgoglio alle battaglie mistiche del Jack Burton di Grosso Guaio a Chinatown e ricorda con struggente malinconia il ditino rosso di E.T. che telefona a casa sua.
Intendiamoci: gli anni Ottanta non hanno il primato della nostalgia. Quando avranno l’età che noi abbiamo oggi, i bambini nati degli anni Duemila guarderanno al loro passato e proveranno nostalgia per i loro film, per la loro tecnologia, per i loro cartoni animati. In fondo cos’era Happy Days se non nostalgia degli anni Cinquanta per gli spettatori degli anni Settanta? Da questo punto di vista non siamo diversi da chi ci ha preceduto e da chi ci seguirà.
Però al cinema degli anni Ottanta va riconosciuta, oltre a una serie di specifici elementi di stile, anche una peculiare voglia di divertire, di appassionare, di costruire storie in qualche modo universali, soprattutto storie che potessero insegnare qualcosa, trasmettere un certo sistema di valori. Il tutto all’interno dell’ultimo decennio pienamente analogico, in cui la mancanza di una connettività veramente globale lasciava maggiore spazio all’ignoto e al mistero, lontano dalla frenesia digital-informativa (piena di dettagli, speciali, spoiler, news martellanti) che viviamo in questi anni.
Stranger Things e il recupero di una struttura emotiva
Torniamo all’inizio, e al perché Stranger Things ci piace così tanto. Se non è la sua originalità a colpirci, se non siamo sorpresi dal modo ardito di trattare questo o quel tema, il merito va cercato nella capacità di ricreare un certo tipo di atmosfera e di offrire un racconto che abbia un gusto estremamente conosciuto, ma che non risulti per questo vecchio o stantio.
Più che per la capacità di offrire qualcosa di nuovo (che evidentemente non hanno fatto), i fratelli Duffer vanno applauditi per la straordinaria abilità nel costruire e mantenere un equilibrio. Non a caso bambini degli anni Ottanta – solo 32 anni, mannaggia a loro – i Duffer danno l’impressione di essersi seduti a un tavolo, buttando su un foglio tutto quello che avevano amato e continuavano ad amare di quegli anni, e dandosi poi l’obiettivo (fondamentale) di riproporlo in una veste che fosse ancora appetibile ed efficace.
Usando quasi esclusivamente elementi che già conosciamo, Stranger Things diventa dunque una serie rassicurante (come Rai Uno) non perché al suo interno non succeda niente di male, di brutto o di contorto – anzi – ma perché il suo modo di raccontare promette agli spettatori che nulla di brutto succederà a loro.
Guardando Stranger Things possiamo staccare non solo dalle brutture della realtà, ma anche dall’impegno che altre serie e altri film contemporanei pretendono da noi, dagli schiaffi che riceviamo dai Game of Thrones e dai Mr. Robot. Aggrappati alle regole di genere come alle cinture di sicurezza delle montagne russe, saliamo su un ottovolante di cui conosciamo perfettamente il percorso e la destinazione (salvo qualche discrepanza finale dovuta a esigenze seriali di cliffhanger), ma che proprio per questo ci regala un’emozione da vivere liberamente, senza timori.
Ma quindi è solo una questione di semplicità di approccio, di facilità di accesso?
Ovviamente no, altrimenti Stranger Things non sarebbe diversa da NCIS. A contare non è solo la semplicità, bensì soprattutto il recupero di un immaginario. Stranger Things affida il ruolo di eroi a personaggi caratterizzati in primo luogo dalla capacità di sognare, di andare oltre l’evidente e il direttamente percepibile. Sono bambini che vogliono credere alla sopravvivenza del loro amico e all’esistenza dei superpoteri, sono madri disposte a parlare con un mucchio di luci di natale pur di comunicare con il figlio, sono poliziotti che, pur incastrati nel loro ruolo istituzionale, non rinunciano ad ascoltare la pulce nell’orecchio che gli promette qualcosa in più sotto la superficie.
Tenendosi adeguatamente a distanza da qualunque deriva religiosa, ma anche dalle forme più estreme e rancorose del complottismo contemporaneo, i fratelli Duffer costruiscono in primo luogo una celebrazione della fantasia e del coraggio, dell’amicizia e del mistero, che poi era il vero cuore del cinema che tanto amano.
Raggiungendo un pubblico molto consapevole, che ricorda con puntuale nostalgia un tempo che ritengono ormai finito, gli autori mostrano che quei codici narrativi, quei temi e quelle emozioni possono ancora essere risvegliati, anche nel cuore parzialmente inaridito di persone che si sono adattate a una contemporaneità ipertrofica, ipergiudicante e iperrazionale, in cui interi film e serie tv possono essere bocciate per un singolo dettaglio inverosimile.
Forse suggeriti proprio dall’amore per il passato che vedevano intorno a loro, i creatori di Stranger Things si sono convinti che c’era ancora spazio per certe storie e certi singoli elementi, capaci di pizzicare corde emotive che forse pensavamo di aver perso o dissolto, ma che invece erano ancora lì: dai nerd malmenati che si prendono la rivincita grazie all’amico magico (Eleven come Falcor de La Storia Infinita), alla comparsa dell'”alieno” da amare e travestire (con parrucca e vestitino come ET); dal bullo che si pente e si ricrede (Steve come Johnny in Karate Kid), alle corse in bici fuggendo dai cattivi in furgone (ancora come in ET); dalle uova di mostro identiche a quelle di Alien alla forza di amicizie che vanno oltre la paura o il rancore di un momento. Dettagli del passato, che tutti insieme costruiscono l’impalcatura per scatenare emozioni nel presente, non appena scatta il riconoscimento di schemi già assimilati ma da troppo tempo seppelliti.
Quello che poteva essere e (per fortuna) non è stato
Stranger Things è così spiazzante, nella sua apparente semplicità, che alla fine per comprenderne il valore può essere utile riflettere su quanto avrebbe potuto essere brutta o inutile, se sceneggiatori e registi avessero sbagliato anche solo due o tre elementi.
Nella sua ansia citazionista, Stranger Things avrebbe anche potuto soffocare nei dettagli, nei riferimenti, avrebbe potuto concentrare troppo l’attenzione sull’omaggio (che pure è ai massimi livelli), dimenticandosi della storia. Allo stesso tempo, la regia avrebbe potuto spaventarsi del suo stesso classicismo, cercando rifugio in deviazioni troppo vistose che, a quel punto, sarebbero apparse semplicemente stonate. Ancora, la paura di un ritmo troppo lento avrebbe potuto imporre scatti continui e omissioni (anche se alcune parti verso le fine mi sono parse comunque un tantino frettolose).
Più in generale, l’errore più grande che si poteva compiere era adattare temi e storie orgogliosamente “di ieri” a un’estetica esplicitamente “di oggi”, con il risultato di far sembrare vecchie le prime e esagerata la seconda.
Invece no: pur usando tecniche e immagini moderne (c’è l’HD, c’è la CGI), i fratelli Duffer non rinunciano mai a proporre “proprio quella roba lì”, quel modo specifico di far progredire la storia, di rappresentarla, di sviluppare i personaggi, anche di rendere esplicite certe riflessioni e dinamiche (si pensi a certi sbotti d’ira molto “scritti” e guidati) che in altre serie sarebbero state affidate a elementi più sfuggenti o intricati. In questo senso Stranger Things è un falso d’autore, una copia così precisa e particolareggiata dell’originale – composto da tanti film, canzoni, libri e serie tv – che l’eventuale fastidio per la banalità del soggetto viene largamente superata dall’ammirazione per la tecnica sopraffina con cui è rappresentato.
Né dobbiamo dimenticare l’intelligenza del packaging e della promozione: nel costruire un logo evidentemente mutuato dal lettering dei film anni Ottanta, e affidando all’ufficio stampa di Netflix il compito di avvertire preventivamente gli spettatori su ciò che Stranger Things sarebbe stata, gli autori hanno piazzato la ciliegina sulla torta: semplicemente dichiarando che si trattava di un omaggio a un’epoca, i Duffer si sono subito messi al riparo da molte potenziali critiche, disinnescando possibili accusatori filo-modernisti con un semplice “te l’avevamo detto subito che era così”.
E allora facciamoci rassicurare
Di fronte a questo lavoro certosino, a questa appassionata riscoperta di strutture narrative, icone e personaggi, che i Duffer hanno compiuto in maniera così romantica eppure così scientifica, anche il recensore più puntiglioso e cinico non può che arrendersi. Trasportato in maniera così dolce in un immaginario che credeva ormai disperso, il critico snob accetta di partecipare al gioco, rinuncia alle sovrastrutture che ha accumulato in anni di visioni e di esperienza, e decide che è davvero il caso di tornare un po’ bambini.
Non per rinnegare ciò che è venuto dopo, e nemmeno per dire “adesso li vogliamo tutti così”: semplicemente, perché ogni tanto è bello poter respirare un po’ di aria di casa.