American Crime Story: un livello proprio alto. di Diego Castelli
Non osavamo sperarlo e invece è stata una grande prima stagione
SPOILER!
La prima stagione di American Crime Story è una figata.
Diciamolo subito, così ci togliamo il pensiero e non ci facciamo distrarre dalle elucubrazioni che potrebbero venire dopo.
Perché American Crime Story di pensieri e riflessioni potrebbe generarne parecchie. Incentrata su quello che è probabilmente il più famoso caso di cronaca nera del mondo, sfociato nel processo più seguito, commentato e dibattuto della storia, ACS ha masticato insieme i concetti della serie tv e del cosiddetto true crime, per ottenere un prodotto a metà strada fra la docufiction e il vero e proprio telefilm. Un miscuglio ricchissimo di spunti commerciali, produttivi e artistici che potrebbe essere analizzato e discusso da molteplici punti di vista, visto che in sole dieci puntate ha cercato (a mio avviso con successo) di raccontare non solo un caso di nera, ma soprattutto gli sconvolgimenti che quel caso produsse nel modo in cui la televisione e i media in generale leggono e rielaborano la realtà.
Della vicenda poliziesca e giudiziaria di per sé non abbiamo grande titolo per parlare. Per quanto sia opinione comune che il processo a OJ Simpson sia stata una mezza farsa, e che il vero colpevole sia uscito dall’aula impunito, non siamo noi a dover giudicare ciò che è accaduto nella realtà extratelevisiva.
Possiamo parlare però di come questo clima di sospetto, questa idea di circo mediatico in cui tutto è il contrario di tutto, sia nato in quell’occasione e abbia influenzato la produzione di una serie che, pur non mostrando mai l’omicidio (e quindi la sua versione dei fatti), ha voluto rappresentare il dubbio, l’incertezza, l’idea che il sistema giudiziario americano, da sempre (auto)considerato maestro di democrazia ed efficienza, sia in realtà ampiamente manipolabile in praticamente tutti i suoi stadi, partendo dalla raccolta delle prove e arrivando alla scelta dei giurati. Il tutto, paradossalmente, sfruttando quelle stesse leggi e regolamenti che esistono proprio per rendere i processi il più possibile giusti e imparziali.
Intendiamoci: niente di tutto questo è davvero “nuovo”. Ci sono decine di serie tv, film e romanzi che trattano proprio il tema della fallibilità della giustizia, negli Stati Uniti come in qualunque altro Paese. Quello che però ha lasciato davvero di stucco è l’abilità degli autori Scott Alezander e Larry Karaszewski nel trovare un equilibrio pressoché perfetto fra messa in scena di fatti storici conosciutissimi, inserimento di retroscena meno noti, e costruzione di una suspense poderosa.
L’elemento che più stupisce di American Crime Story è forse proprio quest’ultimo: pur partendo da una vicenda assai nota, di cui più o meno tutti conoscevano l’epilogo (e gli spettatori americani probabilmente molto di più), la serie tiene la tensione altissima per tutti i dieci episodi. Non c’è praticamente mai un momento di stanca, ma non solo, la sceneggiatura riesce perfino a prendersi il tempo di compiere vere e proprie deviazioni, concecendosi ampi spazi di libertà artistica pur rimanendo nell’alveo della cronaca e della ricostruzione.
Per me l’episodio della svolta è il sesto, quando il racconto si concentra non tanto sul caso, quanto sulla vita di Marcia: con estrema scioltezza, senza soluzione di continuità, la serie sposta il fuoco del suo racconto dalla macronarrazione che tutti conoscono, alle vicende intime e personali di un singolo personaggio, la cui inadeguatezza e il cui disagio diventano in realtà specchio di un tema più vasto, quello di una spettacolarizzazione del processo che impedisce di distinguere gli elementi di reale interesse, persi in mezzo a considerazioni e ragionamenti di dubbio gusto e dubbia utilità.
È l’episodio della svolta perché è quello in cui la serie passa da semplice ricostruzione, per quanto certosina ed elegante, a dramma di più ampio respiro, capace di contenere al proprio interno non solo la storia nuda e cruda, ma anche le sue ramificazioni più personali e apparentemente (ma solo apparentemente) secondarie.
Il lavoro compiuto in American Crime Story è pregevole un po’ a tutti i livelli, ma credo che una parola in più vada spesa per il cast. Se la sceneggiatura è calibrata al millimetro, se riesce a tenere al proprio interno i moltissimi e intricatissimi spunti etici, morali, politici e massmediali che la vicenda porta con sé, è anche vero che il racconto sarebbe stato meno intenso, forse perfino più noioso, se a sostenere quell’impalcatura narrativa e concettuale non ci fosse stato un cast in letterale stato di grazia, scelto e diretto alla perfezione.
Sarah Paulson e Sterling K. Brown sono perfetti nella parte dei due avvocati che credono di avere il caso in pugno, e poi se lo vedono scivolare via dalle mani. I loro volti riescono a trasmettere la durezza e l’arroganza delle fasi iniziali del processo, ma anche la progressiva insicurezza e disagio all’esplodere del macello mediatico (di cui la stessa presenza di Darden, un nero assoldato dall’accusa per rendersi meno “bianca e basta”, è una diretta conseguenza). La progressiva sconfitta di Marcia, la pietà che arriviamo a provare per lei, come donna prima ancora che come avvocato, è uno dei risultati più fulgidi e potenti della serie.
Stesso discorso per Courtney B. Vance e il suo Johnnie Cochran, principale simbolo dello scivolamento del processo da normale fatto di cronaca a simbolo della battaglia per i diritti civili. Una battaglia che la serie ci mostra in larga parte come strumentale, ma in cui il personaggio di Johnnie arriva a credere davvero, insieme artefice e vittima della manipolazione del processo operata attraverso i media. La mossa azzeccata è proprio quella di mostrare Johnnie non solo (o non tanto) come un viscido azzeccagarbugli, lasciando che arrivi a credere davvero in quello che dice, ben oltre ogni ragionevolezza, ben oltre la rilevanza dei singoli eventi che riguardano OJ Simpson.
OJ Simpson che, paradossalmente, rimane abbastanza ai margini: è il motore di tutto, ma il vero racconto non sta nella sua vicenda, bensì in ciò che quella vicenda produce altrove.
Bene anche tutti gli altri, a cominciare da un irriconoscibile ma efficacissimo John Travolta, arrivando poi a un personaggio teoricamente secondario, almeno per numero di battute pronunciate, ma che in realtà rappresenta un fondamentale ago della bilancia: parliamo ovviamente di Robert Kardashian, interpretato da David Schwimmer.
Ancora una volta, la scelta dell’attore si rivela azzeccatissima: il volto bonaccione e un po’ tonto di Schwimmer, ex Ross di Friends, incarna alla perfezione un personaggio che, a dispetto del suo effettivo titolo (è avvocato anche lui), non è assolutamente in grado di gestire emotivamente lo shock delle processo e delle rivelazioni che porta con sé.
A prescindere da tutto quello che gli succede intorno, a prescindere quindi dal fumo sollevato dagli avvocati e dai media, che impedisce di vedere con chiarezza e finisce col contagiare inevitabilmente anche i giurati, Robert è l’amico fraterno di OJ Simpson, quello che in teoria dovrebbe rimanergli accanto senza se e senza ma. Peccato che alla fine sia quello più convinto di tutti della sua colpevolezza, quello più personalmente provato dal processo, quello che, forse ingenuamente, perfino fanciullescamente, vive il dramma puro e semplice di un’amicizia tradita, di un segreto inconfessabile svelato in tutta la sua crudezza.
La chiusura amara della serie, in cui la vittoria di OJ viene mostrata soprattutto come sconfitta di un intero sistema, lascia la malinconia negli occhi di tutti, perfino di molti vincitori, che arrivano a rendersi conto di quanto accaduto solo dopo che il suddetto fumo è riuscito a dissolversi nell’aria.
American Crime Story è dunque una serie di ricordo e di denuncia, ma in cui l’oggetto della denuncia non è la banale malagiustizia. Lo sviluppo narrativo di questa prima stagione vuole invece essere il simbolo di uno sguardo sulle cose, di una generazione iper-televisiva, iper-informata e iper-morbosa (nel più classico dei troppa informazione=nessuna informazione) che è poi la madre della generazione massmediale attuale, dove internet è insieme la finestra e il canale dove tutti sanno tutto, scrivono di tutto e giudicano tutto, ma in una frenesia tale per cui ben poco di quelle riflessioni e quei giudizi riesce ad avere un reale valore per qualcuno.