The X-Files season finale: c’è qualcosa che non va di Diego Castelli
Nostalgia sì, vecchiume no
SPOILER COPIOSI SUL FINALE, OCCHIO!
Arrivati alla fine dei sei episodi previsti, lo devo dire: il ritorno di The X-Files non mi ha convinto.
Avevo dei dubbi già dopo la premiere, che però aveva una grande energia, un grande impeto, e giocava bene con le aspettative dei vecchi fan lavorando sulle strizzatine d’occhio e su una giusta dose di autoironia. In più, le parole dell’amico Federico Guerri, che ricordava gli anni in cui X-Files rappresentava la porta aperta su un mondo altro e meraviglioso, molto diverso da quello in cui andava in onda Il Pranzo è Servito, mi avevano convinto. Io non sono un profondo conoscitore di X-Files, che all’epoca – prima di diventare un vero serialminder – seguivo nella distrazione dello zapping, una puntata sì e due no, e per questo non potevo/posso questionare sulla soddisfazione dei fan duri e puri, o sulla gioia per certi dettagli. Allo stesso tempo, sono anche uno spettatore del 2016 che vuole provare a entrare nel mood di un grande cult che ritorna.
E qui è arrivato il secondo episodio, il peggiore dei sei. Brutto. Ma brutto vero. Qualche guizzo soprattutto in certe immagini forti, ma per il resto una costruzione banalissima, assolutamente prevedibile, con soluzioni visive da paleotelevisione, come il cattivo inquadrato “per caso” due volte, giusto per dare un piccolo indizio che assomigliava più a un urlo nell’orecchio di un anzianotto un po’ sordo.
Nel terzo episodio, invece, una nuova risalita. Più originale, più ironico, a tratti perfino comico, l’anima più giocherellona della creatura di Chris Carter, e ci siamo divertiti.
Ora non mi interessa fare le pulci a ogni singola puntata, ma il concetto è quello di una qualità ondivaga, che procede per strappi e singole idee. Il tutto inserito in un’impalcatura molto tradizionale, forse un po’ troppo per una miniserie-evento di soli sei episodi: primo e ultimo episodio molto orizzontali, in mezzo un po’ di storie verticali con pochi accenni alla trama sullo sfondo. Unica eccezione la vicenda della madre di Scully, che scavava un po’ di più nel vissuto della protagonista.
Capisco che all’epoca si facesse così, però sono anche passati vent’anni e ora le uniche serie interamente verticali sono i crime che fanno grandi ascolti, ma che di certo non consideriamo come parte innovativa della tv.
Ma se il senso di nostalgia è un filino troppo caricato nel corso della ministagione, col finale si arriva a punte di inaspettato ridicolo.
Il finale è una specie di seguito ma anche di specchio del primo episodio stagionale (si chiamano pure allo stesso modo, “My Struggle”): Mulder-centrico quello, con la passione complottista del buon Fox a farla da padrone, più incentrato su Scully il finale, con Mulder azzoppato dall’epidemia globale (ma protagonista di una scena importante con un redivivo e voldemortico Uomo che Fuma) e Dana impegnata a dar fondo alla sua abilità scientifica per scavare nel suo DNA e trovare la cura per la specie umana.
È tutto molto rapido, pure troppo, con l’abusatissima idea del contagio planetario che prende corpo e sostanza nel giro di un quarto d’ora, con i truccatori affannati sul set a disegnare occhiaie e applicare sudore sui volti dei protagonisti. Però va ancora bene.
Il problema è che si arriva presto al punto di non ritorno. Nel suo show televisivo, Tad O’Malley rivela l’importanza delle scie chimiche e delle microonde nel diffondersi dell’epidemia. È un passaggio breve, in un monologo abbastanza articolato, ma è un passo (falso) che assomiglia più a un calcio nei denti.
Le scie chimiche. Sul serio?
Casualmente, pochi giorni fa Romina Power ha sputato in rete tweet preoccupati proprio per le scie chimiche. Quindi X-Files sta riprendendo, pur con sfumature diverse, una teoria del complotto sposata anche Romina Power, quella di “Felicità, è mangiare un panino con dentro un bambino la felicità”, quella roba lì.
È evidente che qualcosa non torna, e mi pare anche chiaro cosa.
All’epoca X-Files era il racconto che svelava l’invisibile, che apriva gli occhi sonnacchiosi di un pubblico anestetizzato. Non voleva essere “realistica”, o smuovere le masse – era pur sempre un telefilm! Però voleva far pensare, porre domande, titillare lo spirito nerd di una parte di pubblico, quella insoddisfatta dalla superficie omologata veicolata da pochi media nazionali. Era insomma lo stagno ideale dove far prosperare i germi della creatività e della scoperta fanciullesca. Una specie di erede di Ai confini della Realtà, che nei tempi d’oro si poneva accanto ai quiz, ai tg e ai microfoni col filo parlando di civiltà aliene e viaggi nel tempo.
Oggi però il paradigma è cambiato. Le serie soprannaturali riempiono i palinsesti, i romanzi complottisti appesantiscono le librerie, e soprattutto internet è satura, traboccante di buffi personaggi provenienti da ogni dove, che pretendono di raccontare la realtà segreta dietro la realtà ufficiale, come se la realtà segreta (ammesso che esista) potesse essere scoperta e divulgata da un un tizio qualunque che passa i pomeriggi al buio della sua stanzetta.
In questo paradigma, purtroppo, una serie che mi parla di scie chimiche non suona come la voce della verità nel silenzio dell’omologazione, ma solo come il centounesimo degli esaltati.
Per capirci: le scie chimiche sono un’ottima idea complottista, perchè sono un concetto semplice che permette a tutti di alzare la testa e sentirsi in pericolo. Potentissimo. E non è un caso se in tanti ci credano sul serio. Se X-Files fosse stata la prima serie/film/sito a parlarne, saremmo qui ad applaudire alla genialata. Ma non è la prima, nè la seconda o la terza. Anzi, arriva a parlarne in un momento in cui le scie chimiche sono lo zimbello della rete.
Come si fa dunque a non ridere di quella scena? Come si fa a partecipare al pathos che tutto il resto della messa in scena suggerisce? In quel momento cadono le braccia, e semplicemente non si rialzano più.
E non ci sono solo le scie chimiche, c’è anche la questione dei vaccini: di fatto questo finale è un episodio anti-vaccinazioni, incentrato sulle manipolazioni attuate da anni sul vaccino anti-vaiolo per inserire DNA modificato in tutta la popolazione americana, ad uso e consumo dei potenti.
Lungi da me fare la morale a una serie tv, anche se un filo più di attenzione alle problematiche sanitarie della realtà non sarebbe stato male. Ma non è questione di messaggi “giusti” o “sbagliati”. È questione di età e appeal di quei messaggi. Scusate se mi ripeto, ma è quasi lo stesso ragionamento di prima: una X-Files che venti anni fa introduce per prima il dubbio su vaccini coglie nel segno, inventa, smonta, colpisce (e così era stato). Ma dopo due decenni la situazione è cambiata, questa storia dei vaccini non è più un finto-segreto, bensì una finta-realtà che troppa gente prende per vera. Continuando a cavalcarla, senza rinnovarla in alcun modo, X-Files si adagia su paure già molto conosciute, diffuse, e per di più ridicole, passando da vera innovatrice a megafono di quell’idiozia, senza aggiungere nulla.
Intendiamoci, per il resto l’episodio va via abbastanza liscio, ha un bel ritmo, magari troppo svelto ma comunque interessante. Tutta la parte scientifica sviscerata da Scully è molto accurata, o comunque lo sembra, il che parlando di fiction è la stessa cosa. Anche il finale sospeso, che pure fa un po’ incazzare, è coerente con una serie che ha sempre preferito porre domande piuttosto che dare risposte, e riesce pure a offrire qualcosa di nuovo ai vecchi fan, visto che, se non sbaglio, un twist così apocalittico e catastrofico, con l’astronave che appare davanti agli occhi di migliaia di persone, nella vecchia X-Files non si era mai visto (nota postuma, mi dicono che invece si era già visto, quindi manco questa è una cosa nuova…). Meno male che Carter ha già detto che FOX gli ha chiesto altri episodi in futuro, cosa che ci fa sperare in una ulteriore chiusura (anzi, in una chiusura tout court, visto che questa miniserie più che chiudere apre altre porte ancora).
Eppure, nel corso dei sei episodi, il sapore consolatorio della nostalgia ha assunto un retrogusto dolciastro. Alla riscoperta, che va bene, non è stato affiancato l’aggiornamento, la capacità di essere ancora innovativi nonostante il passare del tempo. C’è invece pigrizia, voglia di sparare nel mucchio.
E l’aggiornamento non dovrebbe essere un plus, bensì un obbligo, una necessità. Guardate Tarantino: piaccia o meno, Tarantino omaggia i B-Movie degli anni Settanta con precisione certosina ma senza MAI darti l’impressione di stare effettivamente vedendo un B-Movie degli anni Settanta.
Senza l’aggiornamento, il rischio è di guardare una cosa degli anni Novanta, uscita però nel 2016. Senza l’aggiornamento, il rischio è di scrivere una storia che piacerà molto a Romina Power.
Che NON è una cosa positiva.