Horace and Pete: la nuova serie di Louis C.K. è bella e coraggiosa di Diego Castelli
Tranquilli, niente spoiler
Un giorno vorrei davvero incontrare Louis C.K..
Grazie al cazzo, direte voi.
Ma il mio non è solo il desiderio quasi infantile di incontrare un artista che si apprezza, è proprio la curiosità antropologica di capire dove sta la verità fra lo stand up comedian arguto, cinico, spesso spietato e volgarotto da una parte, e l’autore raffinato, sottile, malinconico e fragile che vediamo nella fiction, dall’altra.
Se oggi mi chiedessero se esiste un erede di Woody Allen, pur nei mille necessari distinguo io direi proprio lui, C.K.. Perché non vedo nessuno così capace di indossare la maschera dell’inadeguato per nascondere e dissimulare un punto di vista così preciso.
Tutto sto preambolo per parlare di una serie (forse dovremmo dire web series) che si chiama Horace and Pete, e che rappresenta una specie di sorpresa di Louis ai suoi fan. Caricato sul sito del comico al costo di 5 dollari, il pilot di Horace and Pete è spuntato praticamente non annunciato, senza promozione da parte della stampa, comunicato solo attraverso la newsletter periodica dell’autore e poi rilanciato dai mille siti a cui però C.K. non aveva detto niente in precedenza. Una modalità distributiva molto personale, se così vogliamo definirla, che l’autore aveva già utilizzato per diversi suoi speciali, ma mai per il pilot di una serie (ammesso che diventi davvero una serie, non è mica così chiaro cosa succederà…). È anche il segnale che C.K. e il suo entourage sono molto più avanti, in termini di strategie commerciali e di marketing, di quanto lo stesso Louis vorrebbe far credere con il suo lavoro, ma questo è un argomento che andrebbe trattato a parte.
Horace and Pete racconta degli omonimi protagonisti, fratelli proprietari di un bar di Brooklyn che esiste da un secolo e da un secolo è sempre guidato da due uomini, un Horace e un Pete, che nei decenni tramandano non solo un locale, ma anche una famiglia e due nomi.
Girato in maniera molto particolare, a metà strada fra la sitcom (ma senza pubblico) e il teatro (due-ambienti-due, scene prolungate, inquadrature larghe e fisse, scenografia esplicitamente teatrale), senza però rifiutare l’uso di tecniche specificamente filmiche come il montaggio e lo zoom, Horace and Pete può contare su un cast clamoroso. Accanto a C.K. nei panni di Horace c’è Steve Buscemi in quelli di Pete. Poi uno straordinario Alan Alda, Jessica Lange, Edie Falco, e un nutrito gruppo di comici americani colleghi del regista.
Già a prima vista Horace and Pete è un ovvio parto della mente di Louis C.K., ma allo stesso tempo è un ulteriore passo avanti nella ricerca stilistica che il comico porta avanti ormai da anni. Tutti i temi principali del racconto sono classici per C.K.: i problemi padri-figli, l’inadeguatezza in amore e con la tecnologia, una spruzzata di politica, perfino la scelta di ambientare tutto in un bar newyorkese, luogo di incontro e di scontro, nonché punto privilegiato da cui osservare una realtà caotica e spesso spaventevole.
Ciò che rende la serie un passo avanti è invece un miscuglio di tecnica e di obiettivi. C.K. non aveva mai fatto una cosa del genere, in termini visivi ma anche di tono, e forse per la prima volta possiamo dirlo senza incertezze: Horace and Pete non è una comedy. Dopo gli esperimenti fatti con Louie, che parte dalla commedia e sconfina spesso nel drama malinconico, H&P non indulge mai troppo nella comedy pura, per quanto ci sia più di un momento divertente. Senza parlare di “dramedy”, che poi al Villa non piace, H&P si limita a raccontare una storia, lasciando che quella storia faccia ridere o riflettere, che stupisca o che lasci l’amaro in bocca a seconda del momento e della situazione.
Non è un prodotto “facile”, Horace and Pete, né è perfetto in ogni dettaglio. Ci sono un paio di monologhi eccezionali di Alan Alda, ci sono svolte narrative gestite perfettamente e non c’è uno solo degli attori coinvolti che non faccia letteralmente faville. Allo stesso tempo non tutte le scene sono ugualmente ficcanti, e si percepisce quel senso di giustapposizione fra nuclei slegati che è la critica più frequente rivolta al Louis C.K. cabarettista, spesso incapace di scrivere spettacoli fluidi e coesi come altri grandi del passato. Soprattutto, parlandone qui su Serial Minds, H&P è tosta per un normale spettatore seriale, perché visivamente distante da quasi tutto ciò a cui siamo abituati.
Allo stesso tempo, se si ha voglia di concedere nuovamente fiducia a Louis C.K., si chiudono i 67 minuti di visione con la certezza di aver ascoltato una storia interessante e di aver conosciuto personaggi di cui immediatamente ci importa molto, e di cui vorremmo conoscere il prossimo futuro. Ma più di tutto se ne esce con l’ammirazione per un autore che, in un mondo fatto di comode etichette e di generi granitici, proprio non ci sta a fare sempre la stessa cosa, e si impegna a sperimentare nuovi formati e nuovi stili per tenere sveglio il cervello dei propri fan.
Fossero tutti così staremmo a posto…
Perché seguire Horace and Pete: i fan di Louis C.K. hanno un nuovo motivo per volergli bene e per vantarsi di essere suoi seguaci.
Perché mollare Horace and Pete: per quanto io possa indorare la pillola, è teatro in tv. Se non accettate questo semplice assunto, meglio lasciar stare.