Homeland – E all’improvviso la quinta stagione prese il volo di Marco Villa
Gli autori ci sanno ancora fare!
OCCHIO, SPOILER!
A dirla tutta non mi sarei aspettato di scrivere adesso di Homeland, perché mancano ancora tre episodi alla fine della stagione e perché le puntate andate in onda quest’anno sono state belle, potenti, ma in fondo senza mai raggiungere picchi superiori alla media molto alta di questa serie. Perché sì, ci ricordiamo bene tutti quanto fosse brutta la terza stagione, ma a parte quella parentesi di totale confusione creativa, gli autori di Homeland hanno dimostrato di essere tra i più bravi in circolazione. Dicevo: l’idea con il Castelli era quella – classica – di tornare a parlare di Homeland al termine della stagione, ma poi è arrivata la nona puntata e tutti i piani sono saltati. La nona puntata di Homeland si intitola “The Litvinov Ruse” e non ti lascia respirare dall’inizio alla fine. I filoni lungo cui si sviluppa sono due: il tentativo di provare il tradimento di Allison Carr e la strana storia del tapino Peter Quinn.
La figura di Allison Carr è senz’altro la più interessante di tutta la stagione: presentata inizialmente come uno squaletto da carriera, abbiamo scoperto ben presto che si tratta in realtà di una doppiogiochista in cerca di soldi e potere, che usa il suo corpo spesso e volentieri per raggiungere i propri scopi. Grazie al rapporto privilegiato con i russi ottiene da anni informazioni bomba, grazie alle quali è riuscita a diventare capo distaccamento CIA in posti bollenti come Baghdad e poi in luoghi prestigiosi come Berlino. Una stronza, insomma, disposta a tutto per salvarsi e continuare la sua scalata. Una figura grazie alla quale Homeland è tornata in parte alla dinamica iniziale, in cui Nicholas Brody aveva la doppia vita eroe/traditore. E pure lui aveva i capelli rossi, ma vabbé.
Con questa storyline, insomma, Homeland ritrova il suo concept iniziale: nelle prime due stagioni Carrie era divisa tra ammmore e sospetti, qui invece a essere coinvolto in prima persona è Saul, che finisce per subire lo stesso trattamento di esclusione e accuse da cui un tempo passò la sua protetta. Per diversi episodi Allison ha dimostrato di essere pienamente in controllo della situazione e anche la nona puntata inizia con un fallito tentativo di incastrarla da parte dei nostri eroi. Il secondo tentativo, invece, funziona alla grande e da quel momento la puntata inizia a correre, per non fermarsi più.
La lunga sequenza del pedinamento è un capolavoro di scrittura (sceneggiatura di Alex Gansa, uno dei due creatori) e di regia (Tucker Gates), con un continuo rimpallo a tre tra riprese di Allison, immagini di sorveglianza e piano di ascolto di Carrie & Saul nella stazione di controllo. Davvero un pezzo di bravura, in assoluto tra i momenti migliori di tutta Homeland, che si conclude con il più classico dei colpi di scena: no, niente è stato provato e tutto è ancora in ballo. Ed è giusto così, perché altrimenti avremmo assistito alla distruzione di un personaggio di tutto rispetto: Allison Carr ha preso in giro la CIA per anni, non può essere messa in un angolo così, in qualche ora. Giusto il suo non abboccare al primo tranello, sacrosanto il suo tentativo di ribaltare completamente il gioco. Piccolo auspicio: che a fine stagione riesca a salvarsi e scappare in Russia, trasformandosi nell’arcinemico.
Il secondo filone di puntata, come detto, è quello che riguarda Peter Quinn. Ecco, Peter Quinn si meriterebbe un post dedicato per come è stato maltrattato e piegato a ogni cosa dal momento della sua comparsa in Homeland. Vi ricordate? Arriva nella seconda stagione super-forte e sicuro di sé, in qualità di talpa di Dar Adal e pian piano entra in una spirale autodistruttiva sempre più stretta. Un’autodistruzione che in questa quinta stagione l’ha portato a trasformarsi in una sorta di killer su commissione per la CIA. Anzi, no, fuori dalla CIA, ma con bersagli indicati dalla CIA. Insomma, un casino in cui lui non può ottenere nessun guadagno, ma solo rischi. Una situazione costruita ad hoc per permettergli di salvare Carrie per la novantaduesima volta.
Nel momento in cui lui sceglie di non ucciderla, però, gli sceneggiatori si sono trovati in mano un personaggio ormai totalmente fuori da tutto il resto della storia. Ecco allora la grande invenzione dell’anno: infiltriamolo tra i jihadisti! Sì, sono sarcastico e pure parecchio, perché tutta questa storia di Quinn salvato, curato e accolto dai terroristi è di per sé ridicola, ma raggiunge vette di grottesco quando si trasforma in un’allegra scampagnata verso la Siria, in cui Quinn è coinvolto nelle vesti di persona con un certo know how.
Inizia così il viaggio, con lunga sosta in Kosovo e poi ritorno a Berlino. È qui che la vicenda del nostro tapinissimo agente torna a essere interessante, ma per sua sfortuna questo accade nel peggiore dei modi possibili, ovvero con lui usato come cavia per il sarin. La nona puntata si chiude con l’immagine di Quinn sconvolto dagli spasmi, con la bava alla bocca e apparentemente a tanto così da rimetterci la pelle. Ci sentiamo di dire che non succederà, ma allo stesso tempo ci sembra anche il caso di sottolineare come sia ormai arrivato il tempo di salutare Peter Quinn. Come detto, si tratta di un eroe tragico, anzi tragicissimo, che da tempo ormai immemore si infligge qualsiasi tipo di sofferenza, senza ottenere nulla in cambio. E non parliamo di soldi o potere (come per Allison), ma di semplice compassione umana. Forse non accadrà con il sarin, ma la sensazione è che la fine di Quinn possa essere vicina. In termini narrativi sarebbe giusto e darebbe una ulteriore botta emotiva a quanto stiamo assistendo.
A tre episodi dal termine, la quinta stagione è in grado di darci ancora tantissimo: abbiamo provato a dare qualche pronostico sul futuro. Magari ci abbiamo preso, magari no, ma in fondo chissenefrega. L’importante è chiudere la stagione alla grande e questo lo sapremo solo il 20 dicembre.