Into the Badlands: AMC fra arti marziali e distopia di Diego Castelli
Sembra il Giappone feudale, e invece è casa tua fra duecento anni
Un paio di mesi fa vi avevamo proposto l’elencone con le serie più attese dell’autunno, quelle che più ci sembravano promettenti. In qualche caso ci abbiamo preso (Master of None, Ash vs Evil Dead) in qualche altro no (Minority Report), in qualche altro ancora ci stiamo ancora strappando la pelle dalla faccia per la delusione (The Bastard Executioner).
In quell’elenco c’era anche Into the Badlands, nuova serie multigenere (diciamo così) di AMC, la rete che in questi anni ci ha regalato Mad Men, Breaking Bad e The Walking Dead. Il che basta e avanza per spiegare l’hype.
Dopo il primo di sei episodi che comporranno la prima stagione, Into the Badlands non finisce nel calderone delle delusioni, ma le manca ancora qualcosa per essere promossa a pieni voti.
Ma andiamo con ordine.
Creata da Alfred Gough e Miles Millars – già padri di Smallville e del prossimo The Shannara Chronicles – Into the Badlands sembra voler mescolare moltissime influenze diverse, provenienti da più fonti narrative e stilistiche. C’è il post-apocalittico, con un mondo devastato dalla guerra e (ri)trasformato in una sorta di Giappone feudale con alcuni potenti (i Baroni), i loro soldati (su cui spiccano i Clippers, le “Lame”), e molti lavoratori/schiavi. Ci sono le arti marziali, con il protagonista Sunny (Daniel Wu) impegnato in coreografie mozzafiato. C’è la tradizione del fumetto, che influenza la caratterizzazione molto netta dei personaggi fino alla costruzione di molte inquadrature. C’è la tradizione narrativa orientale, che fa capolino fin dal concept, parzialmente ispirato al racconto tradizionale cinese “Viaggio in Occidente”. C’è anche il western (che già di suo all’Oriente deve molto) nella costruzione di faide familiari e tra villaggi che riverberano in duelli mortali in vicoli bagnati dalla pioggia.
Il primo episodio fornisce subito una grande quantità di informazioni, ma la storia non è complicata: Sunny è il più forte e leale soldato del barone Quinn; il barone Quinn governa il suo feudo con carisma, saggezza e se serve violenza; il figlio di Quinn vorrebbe prendere il posto del padre, ma è un bamboccio più arrabbiato che intelligente; la moglie di Quinn odia il marito perché la tradisce, ma contemporaneamente continua ad amarlo e supportarlo come la più algida delle regine; in tutto questo arriva M.K., un ragazzino apparentemente come tanti ma dotato di strani e pericolosi poteri.
Il pilot mette sul piatto battaglie esagerate e drammi familiari, promettendo epici scontri fra feudi rivali e un percorso di crescita per Sunny, che verosimilmente si staccherà sempre di più dal barone in cerca di redenzione e di uno scopo nella vita che non sia solo “ammazzo tutti quelli che stanno antipatici al padrone”.
All’inizio si diceva di una promozione con riserva.
Into the Badlands ha indubbiamente molti pregi, primo fra tutti quello di stuzzicare il Castelli giovane che ancora alberga dentro di me e che spesso urla e strepita come una ragazzina. Quello che fra Ottanta e Novanta si esaltava per Dragon Ball e Resa dei conti a Little Tokio con Brandon Lee. Quello che non si perdeva una scazzottata di Bud Spencer e Terence Hill e che quando è uscito Matrix ha perso il senno per tre giorni nel tentativo di metabolizzare le evoluzioni di Keanu Reeves.
Da questo punto di vista, Into the Badlands colma un vuoto abbastanza oggettivo in un panorama seriale fatto soprattutto di drama, comedy e polizieschi: le coreografie marziali di Stephen Fung e Ku Huen-Chu sono roba da cinema, che in televisione non si vede quasi mai. E sono belle, fighe, tamarre, scegliete voi un aggettivo che dia il senso dell’esaltazione da combattimento-fatto-bene. Sono l’equivalente maschile dei film sul ballo, danze mortali che al fan del genere suonano come una boccata di aria fresca in un mondo che al massimo (con tutto il rispetto) può permettersi le risse di Arrow. Qui è tutto elegante, ben girato, sicuramente molto retorico e caricato, ma proprio per questo efficace nel restituire un certo tipo di atmosfera e di stile. E vale anche per paesaggi e scenari, con i simboli del barone tinti di rosso come il sangue delle reclute, a loro volta rispecchiati nel colore dei papaveri coltivati dal signorotto del quartiere.
Anche la storia fumettosa tutto sommato funziona, perché la semplicità di alcune dinamiche può servire da solida base per approfondimenti successivi e per un racconto che possa sfociare realmente nell’epica, altro concetto che la serialità televisiva non riesce sempre a sviluppare con successo.
L’altra faccia della medaglia è una questione insieme esterna e interna al genere trattato.
Esterna nel senso che questo tipo di impostazione e rappresentazione rischia di piacere molto a chi ha già dimestichezza con i film di arti marziali, ma anche di creare una nicchia che allontani tutti gli altri: se già i combattimenti ti sembrano ridicoli (cosa sempre possibile) anche tutto il resto finisce per risentirne. In questo senso sarebbe forse bastata un po’ di ironia, al momento completamente assente: una maggiore leggerezza, che non significa abdicare all’epica o alla forza del dramma, avrebbe reso più digeribili alcune esagerazioni.
Interna nel senso che, pur avendo i pregi di cui sopra, Into the Badlands non riesce a tenere lo stesso livello per tutto il pilot: qualche rallentamento di troppo, alcune location meno ispirate e più povere di altre, il contrasto abbastanza netto fra la bellezza dei combattimenti e l’ordinarietà di alcune scene di dialogo o interlocutorie, sono tutti elementi che portano a una curva di interesse altalenante, che può indurre lo spettatore a chiedersi semplicemente “quando arriva il prossimo combattimento?”
Questo ovviamente non va bene, perché non siamo a teatro a vedere il cirque du soleil: una serie tv, per quanto votata all’azione, deve avere una solida base narrativa, altrimenti ci si annoia.
Into the Badlands per ora tiene vivo l’interesse e si porta dietro una chiara patina di “novità” (in riferimento al resto dell’offerta televisiva). Ma dovrà stare attenta a non ridursi a una semplice collezione di combattimenti fighi. Per carità, va anche bene, ma da AMC ci aspettiamo di più.
Perché seguire Into the Badlands: la storia è semplice ma ha buone potenzialità, l’esperimento misto-genere è intrigante, e finalmente una serie tv si occupa di arti marziali come si deve.
Perché mollare Into the Badlands: se proprio vi scappa da ridere quando vedete gente che combatte facendo fu-fu-fu con le mani, forse è meglio se lasciate perdere.