20 Ottobre 2015 4 commenti

The Good Wife stagione 7: giusto continuare, anche quando si fa fatica di Chiara Longo

Una stagione iniziata con luci ed ombre, ma con un personaggio che ha ancora molto da dare

Copertina, On Air

3. LA LOCKHART/AGOS (e la noia)
Il plot della Lockhart/Agos è ormai per Alicia un disturbo di contorno con cui scontrarsi di tanto in tanto e che non si sa bene dove gli sceneggiatori vogliano portare. Cary non si sente a suo agio e ingaggia una battaglia personale, ma la noia che aleggia intorno a dei personaggi ormai scolpiti nella calce è tangibile. La forza della femmina alfa Diane Lockhart è sparita dietro un donna seduta sugli allori e completamente ingessata, così come è diventata irritante la sagacia sempre al limite di David Lee, mentre il vecchio rincoglionito diverte abbastanza ma lascia il tempo che trova. Per quanto il personaggio di Kalinda Sharma fosse spesso bloccato in una recitazione volutamente piatta ma alla lunga troppo rigida, adesso se ne sente la mancanza. È sicuramente l’anello debole di questa stagione.
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Per tirare le somme, la storia personale di Alicia sembra avere ancora molto da raccontare, quello che succede intorno a lei meno. L’inserimento del personaggio di Lucca Quinn è necessario per ridare ad Alicia una spalla femminile con cui confrontarsi e riflettersi, la figlia è sempre una tuttologa-nata-vecchia con l’appeal di un maglione di lana di quelli che prudono, i casi giudiziari ritornano al centro della scena dopo un lungo periodo in cui erano diventati di contorno per fare spazio alla storyline politica, ma soprattutto ridiventano i luoghi in cui mettere esplicitamente in scena la metafora di The Good Wife: innanzitutto un sistema giudiziario spesso complesso ma ancora più spesso demenziale, dove le sorti di un imputato possono essere decise dal livello di sazietà di un giudice, e poi i processi dove gli avvocati sembrano più interessati a fare sfoggio di astuzia e dialettica che alla giustizia (un capolavoro da questo punto di vista la sequenza del processo per il quadro di Chagall: il caso non viene risolto dai periti con le specializzazioni più assurde che si confrontano ostinatamente su una serie di fantasiose puntigliezze tecniche, ma semplicemente dall’applicazione della legge già scritta).
Ecco perché vale la pena di continuare a guardare The Good Wife, perché anche se forse non è più fastosa e appassionante come una volta e un po’ di noia si sente, resta un magnifico esempio di scrittura piena di testi e sottotesti, e racconta la storia di un personaggio che non è un supereroe che rimette tutto a posto con la sola imposizione delle mani, ma una donna che lotta e fa in modo che le sue ripartenze avvengano sempre almeno un paio di metri più avanti dal precedente inizio.

Se siete arrivati a leggere sto pistolotto fin qui, siete dei veri appassionati di The Good Wife e sapete anche che sono un mucchio di cazzate, perché l’unico vero motivo per continuare a vedere The Good Wife è:
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*(nella prima stagione tutti i titoli sono di una parola, nella seconda di due, nella terza di tre, nella quarta di quattro, nella quinta di tre, nella sesta di due, nella settimana di una. Se questo fosse uno schema 1-2-3-4-3-2-1, potrebbe essere un segnale della fine della serie). Se avete letto tutto l’articolo siete comunque degli indegni ma almeno questo ve lo meritate.



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