The Walking Dead 6 – Buone cose, ma in bianco e nero di Diego Castelli
L’importante è non esagerare
L’altro giorno, prima che avessi visto la puntata, il Martino mi ha scritto: “ma The Walking Dead è diventato un film di Truffaut?”.
Ovviamente la prima cosa che ho risposto è stata: “non spoilerare, bastardo!”.
Allo stesso tempo, quello strano accostamento mi aveva parecchio incuriosito, così ho resistito a stento fino al momento di vedere la première della sesta stagione. Ora ho capito cosa volesse dire, e non è necessariamente una cosa positiva!
Ma andiamo con ordine…
Intanto è tornata The Walking Dead e per questo c’è sempre gioia. Diciamo che è il mio Game of Thrones dell’autunno, la serie che vedono un po’ tutti, che molti anche insultano, ma che mi fa sentire affettuosamente parte della comunità seriale mondiale. E poi oh, mi piace sempre, su queste pagine l’ho sempre difesa, e anche quest’anno sono rimasto subito appassionato dalla storia messa in campo.
Trovo però che il giudizio sulla puntata possa essere diviso in due macro-temi: col primo ci saranno diverse lodi, col secondo… ehm… un po’ meno.
Partiamo dalla pura e semplice scrittura. Al centro dell’episodio troviamo una missione, conseguenza di una scoperta: c’è un motivo se l’avamposto di Alexandria è stato quasi sempre risparmiato dagli attacchi degli zombie, tanto che i suoi abitanti sono diventati dei fighetti senza nerbo. Il motivo è una cava in cui gli zombie si andavano naturalmente accumulando, come se fosse una specie di fossato che proteggeva Alexandria dalle orde di walkers (questa cosa non è spiegata benissimo in verità, ma tant’è). Che culo, verrebbe da dire, se non fosse che i camion che costituiscono il recinto di questa cava stanno per cedere, liberando nel circondario una clamorosa quantità di mangia-cervelli. Da qui il piano di Rick, che organizza una nutrita squadra di pronto intervento per gestire in maniera pilotata il rilascio degli zombie al fine di allontanarli di molte miglia dalla cittadina.
Questa la superficie dell’episodio, il motore dell’azione dei personaggi e la base per il cliffhanger finale, dove ovviamente qualcosa nell’elaborato piano andrà storto (quel qualcosa è una misteriosa sirena/clacson che attira gli zombie fuori dalla traiettoria pensata da Rick: da dove arriva? Un traditore? I misteriosi wolf?).
Appena sotto la superficie, però, si agitano tutt’altre questione. Al centro della vicenda c’è quella che in America chiamano già “Ricktatorship”, ovvero la dittatura di Rick, la sua sempre maggiore presa di potere ad Alexandria anche a seguito dell’apatia di Deanna, ancora frastornata per la morte dell’adorato marito sul finale della scorsa stagione.
Sono in molti, con forme e intensità diverse, a questionare il modo di agire di Rick: c’è Daryl, che non vede di buon occhio l’idea di interrompere le ricerche di altri sopravvissuti; c’è Carter, che addirittura stava organizzando una sommossa per strappare il potere dalle mani dell’invasore esterno; c’è soprattutto Morgan, ritornato nel gruppo nell’ultimo episodio dell’anno scorso e subito affiancatosi a Rick in un’amicizia di lungo corso ma logorata dal tempo passato.
Ed è proprio qui, nel rapporto fra questi due personaggi, che si sviluppa il discorso più interessante, figlio di quel vecchio tema che The Walking Dead si porta dietro da sempre: a quanta umanità sei disposto a rinunciare pur di sopravvivere?
Una volta questa “cessione di umanità” si riferiva alla disponibilità ad uccidere non solo gli zombie, ma anche i normali esseri umani, nell’ottica di una protezione del gruppo che veniva prima della più generica protezione della specie umana. Ora quello stesso tema trova una nuova declinazione: sempre avendo in mente la salvezza delle persone che lo circondano, Rick sta diventando un despota, uno che crede di avere tutte le risposte pronte e si aspetta che gli altri agiscano di conseguenza, seguendo le sue direttive senza fiatare.
Una posizione sicuramente antipatica, che gli autori hanno l’accortenza di sfumare in entrambe le direzioni: è vero che Rick sta diventando un po’ stronzo, ma è anche vero che aveva ragione nello spronare gli abitanti di Alexandria, troppo seduti sugli allori; è vero che il Grimes comincia a puntare un po’ troppo la pistola alla testa della gente, con annesso sguardo da pazzoide, ma è anche vero che finora non ha mai oltrepassato un punto di non ritorno, mostrando qualche residuo brandello di giudizio e mostrando, soprattutto, di avere più o meno le idee chiare su come proteggere la sua “famiglia” (in senso allargato).
Sembra venire fuori una riflessione ben cara agli americani e all’Occidente tutto, quel continuo tira e molla fra libertà e sicurezza che al giorno d’oggi, in tempi di intercettazioni e guerre preventive, è quanto mai attuale: Rick sembra in grado di proteggere i suoi compagni, ma perché questo avvenga essi devono abdicare completamente il loro libero arbitrio a lui, affidandogli la propria vita e le proprie scelte. Dov’è la linea che separa l’essere protetti e l’essere burattini? Quanta libertà siamo disposti a delegare pur di sentirci sicuri? E al contrario, qual è il rischio che siamo disposti a correre pur di mantenere viva la nostra libertà?
Queste questioni di “confine”, ne sono certo, saranno uno dei temi centrali della stagione, una stagione in cui Rick potrebbe definitivamente entrare a far parte di quel classico gruppo di cattivi che sono tali non per gli obiettivi che si prefiggono, ma per gli strumenti con i quali li perseguono. E poco conta che Carter, principale oppositore esplicito di Rick, muoia a fine episodio: anzi, proprio guardare Rick che lo uccide (per quanto in quel momento ne avesse tutte le ragioni) sembra convincere Morgan che qualcosa non va nel suo amico, quell’amico di cui serbava un ricordo più equilibrato e “felice”. Se fossero Iron Man e Capitan America finiremmo col parlare di Civil War (peraltro i temi in ballo con quella storia non si allontanano più di tanto dalle cose dette sopra).
Fin qui tutto bene. Mi interessa la storia specifica e sono contento degli sviluppi di lungo termine.
Si arriva così al secondo macro-tema, quello che ha spinto il Martino a tirare in ballo sarcasticamente Truffaut.
Per raccontare tutta la roba che abbiamo appena detto, gli autori organizzano una puntata temporalmente spezzettata, in cui la trama principale viene continuamente interrotta da flashback che raccontano come si è arrivati al mega-piano della cava di zombie.
E i flashback sono in bianco e nero.
Facile vedere perché il Martino si è messo a fare il sagace rompicoglioni: quelle scene in toni di grigio, a evidenziare i flashback come se fossimo negli anni Sessanta, effettivamente facevano un po’ ridere. Più che altro perché non se ne capisce bene il senso: in una recente intervista, la produttrice Gale Anne Hurd ha spiegato che gli autori quest’anno vogliono usare tutti gli strumenti a loro disposizione per continuare lo scavo psicologico dei personaggi, senza porsi eccessive limitazioni in termini di flashback, flashforward o altre tecniche che potrebbero essere utili allo scopo.
Cara Gale, io sono d’accordo con te, fate quello che vi pare, però se questo lodevole obiettivo partorisce dei flashback in bianco e nero che non danno niente in più se non il fatto di far capire bene-bene-bene che sono dei flashback, beh, potevamo arrivarci anche a colori.
In generale, questa messa in scena saltabeccante e fumè è parsa un pochino arrogante, come se effettivamente volessero fare i fighi senza che ce ne fosse davvero bisogno. Il mio consiglio (suppongo utilissimo, giusto? GIUSTO?) è quello di continuare come hanno sempre fatto, che tanto ci piacciono comunque e fanno i botti d’ascolto. Se volete metterci ulteriore creatività, benissimo, non vediamo l’ora, ma fatelo solo quando siete sicuri che possa avere più significato di un semplice filtro cromatico in fase di montaggio… Anche perché, nel frattempo, gli effetti speciali all’inizio della puntata facevano pure un po’ pietà: non l’ho sottolineato troppo perché vi voglio bene, però dai, un po’ di dignità…