Homeland – Due anni dopo al punto di partenza di Marco Villa
Homeland riparte bene, ma con due dubbi giganteschi sul futuro
Highlander
Homeland è la serie che non muore mai. Quella che è arrivata a un passo dall’autodistruzione, si è salvata per miracolo e ha ricominciato a correre più forte di prima. Dopo le prime due stagioni a mille, la terza che è coincisa con il crollo e il grande rilancio della quarta, questa quinta stagione rappresenta un momento importante per capire se Homeland riuscirà a essere una serie potenzialmente eterna, con nuove storie ogni anno, sempre più staccate e lontane dal concept iniziale. Perché bisogna ricordarsi che siamo partiti dalla storia personale di un traditore, mentre ora siamo di fronte a una serie spy con orizzonte larghissimo.
Le incognite sono due: la capacità degli autori di trovare anche quest’anno una storia forte e il rischio ripetizione.
I rischi della quinta stagione
Il primo aspetto sembra essere lo stesso comune a tutte le serie, ma non è così, perché Homeland non può fare affidamento su un elemento fondamentale: i personaggi. Homeland è partita come una serie retta da due protagonisti, ma una volta sparito Brody non c’è mai stata una riorganizzazione dei ruoli in grado di ridare equilibrio al tutto. È rimasta solo Carrie contro tutti, ma lei non è l’eroina che ci galvanizza, anzi: è un personaggio fastidioso, che spesso ci sta sul cazzo. Non è certo azzardato dire che le figure che sentiamo più vicine sono quelle del bel tenebroso Peter Quinn e soprattutto di Saul Berenson, che però sono comprimari e non potranno mai prendere il centro della scena, altrimenti Homeland cambierebbe radicalmente pelle una seconda volta. Restando in ambito spie-terroristi, pur con mille differenze, anche Alias aveva una donna sola contro tutti, ma quello di Sydney Bristow era un classico personaggio principale in grado di portarsi dietro attenzione e affetto del pubblico. Carrie non è così. La rinuncia a una protagonista empatica è uno degli aspetti più coraggiosi di Homeland, ma anche un elemento che finisce per caricare sulla trama tutto il peso di una stagione flop o di successo.
Allo stesso modo, un personaggio che fatica enormemente a crescere come quello di Carrie, espone la serie al rischio ripetizione. In un tot di scene quasi metalinguistiche, è la stessa Homeland a porre la questione durante la premiere della quinta stagione, mettendo Carrie nella situazione di dire: “ma che voglia ho di farmi rapire ancora dallo Hezbollah di turno?”, che in fondo è quello che potrebbe pensare lo spettatore di fronte a una storia che rischia di essere sempre la stessa, con tanto di figure secondarie inchiodate ai propri ruoli (Saul burattinaio sempre a un passo dal vero potere, Quinn esecutore muto, ma un po’ complessato).
La prima puntata
Lo so, ho scritto quasi 3000 battute e non ho ancora detto una parola sulla trama del primo episodio della quinta stagione. Sì, potrei citare l’ambientazione europea, il riferimento esplicito allo scandalo dello spionaggio congiunto tra NSA e servizi tedeschi, l’introduzione del mondo degli hacker o il fatto che a due anni dalla fine delle vicende della scorsa stagione la nostra Carrie Mathison adesso lavora in una fondazione che aiuta quelle popolazioni che prima non trattava proprio benissimo quando era alla CIA. Ma conta poco, perché, come detto, a due anni dalle vicende della quarta stagione siamo di nuovo al punto di partenza, con Carrie che contatta fonti, viene rapita, rilasciata e porta a casa il risultato. L’impianto è chiaro, così come è chiaro che le strade di Carrie, Saul e Peter si intrecceranno a più non posso e in modo forse tragico. La premiere è interlocutoria, si limita a mettere le pedine sulla scacchiera, chiedendo agli spettatori fiducia per quello che verrà.
È cambiato tutto, ma non è cambiato assolutamente niente. Se questo è un punto di forza o una debolezza, lo sapremo tra qualche settimana. Per il momento, noi siamo tra quelli che a Homeland danno sempre gran fiducia. Finora non siamo stati mai delusi. Quasi mai.