Wayward Pines: diamo a Cesare quel (non troppo) che è di Cesare di Diego Castelli
È già buono che non siamo rimasti indifferenti
ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA STAGIONE DI WAYWARD PINES!
Quando il Villa scrisse la recensione del pilot di Wayward Pines, la critica più grossa che si potesse fare alla serie era di essere la solita roba (il socio chiamò l’articolo “una storia che avete visto un milione di volte”). Soliti villaggetti di provincia con la gente che ti guarda storto, soliti complotti paesani, soliti segretucci da mercato del pesce con la scoperta che la maestra elementare in realtà mangia i criceti degli studenti mentre sono ancora vivi (i criceti, non gli studenti).
Le solite cose, appunto, condite dalla suprema arroganza di autoproclamarsi erede di Twin Peaks: una di quelle sparate da marketing impudente che spesso al cinema funzionano (avete presente tutti quei film dal titolo “se fai qualcosa ti faccio qualcos’altro”, tutti figli di Se scappi ti sposo?) ma che secondo me in tv sono quasi sempre dei boomerang sparati in fronte.
Ecco, lasciando Twin Peaks dove sta, che non è il caso di coinvolgerla, bisogna però dire che Wayward Pines non è stata propriamente la “solita cosa”. Cioè, a conti fatti non è vero che è una storia vista milioni di volte. E meno male che qui, al contrario di un Game of Thrones, ben pochi italiani avevano letto il libro, quindi non c’è stato rischio di spoiler.
A metà stagione, mentre ancora ascoltavamo distrattamente le menate del monoespressivo Matt Dillon, è arrivato il sorpresone: quello che stavamo guardando era un lontano futuro dell’umanità, e tutti gli abitanti di Wayward Pines erano stati ibernati secoli prima in attesa di essere scongelati per preservare una razza ormai autodistrutta.
Wait… what???
Dal thriller-crime con spruzzate di soprannaturale si è passati repentinamente, nel giro di un episodio, alla fantascienza più esplicita, con futuro distopico, mutazioni, criogenia ecc.
Lo dico senza girarci intorno: questo è il momento più alto, meglio riuscito e interessante della stagione. Forse l’unico momento per il quale valga davvero la pena di dire “bravi”. E il fatto che molti spettatori di fronte al twist abbiano gridato alla cazzata mi tange davvero poco: non fosse altro perché non si può criticare una serie accusandola di banalità e poi non apprezzare il momento in cui esce da quella stessa banalità.
Da questo punto di vista, Wayward Pines non è stata la solita cagatona crime estiva, e di questo le va dato completamente atto. A metà dei dieci episodi l’interesse è stato risvegliato di botto e improvvisamente c’erano validi motivi per star dietro a Matt Dillon e suo figlio, che tra tutti e due è difficile dire chi prenderesti a sberle. Cioè, li prenderesti a sberle entrambi, il dubbio è con chi cominciare.
Dal punto di vista della scrittura, poi, Wayward Pines non si è mai persa troppo via. Evitando l’accozzaglia di spunti senza sviluppo, è invece riuscita a mantenere il 95% (del 5% restante parliamo a breve) di quanto aveva promesso: nella prima e ormai unica stagione di Wayward Pines torna tutto, non ci sono buchi enormi e praticamente tutte le domande trovano risposta. La trasformazione di Pilcher da salvatore a villain; il percorso della sorella che non cede al lato oscuro (o meglio riesce a uscirne); le beghe famigliari e sentimentali di Ethan; le piccole domande fantascientifiche come la natura degli zomboidi fuori dalle mura o il motivo per cui Pilcher non rivela subito a tutti come stanno le cose: non c’è quasi niente di davvero fuori posto (forse giusto qualcosa nelle rappresentazioni del passato, nei primi episodi) e in questo senso Wayward Pines si salva dalle critiche più classiche riservate a questo genere di racconti.
Questa però è la storia nuda e cruda, il meccanismo ad incastri che riconosciamo come piuttosto preciso e, almeno in uno-due punti, adeguatamente sorprendente.
Il problema è che le serie tv non vivono di semplici sinossi: non basta una catena di eventi organizzata con un minimo criterio per avere un prodotto che funzioni al pieno delle sue possibilità.
In questo senso, Wayward Pines non è mai riuscita a sollevarsi da un livello di generale mediocrità. Di Matt Dillon abbiamo già detto, espressivo ed empatico come una caldarrosta. E gli altri non sono messi meglio, oltre tutto azzoppati da una serie di dialoghi che funzionano abbastanza bene quando c’è da raccontare qualche novità fantascientifica (e magari qualche implicazione filosofica), ma ritornano nella più piatta ripetitività quando si tratta del necessario “chiacchiericcio” tra i personaggi.
Non possiamo nemmeno perdonare facilmente il fatto che il famoso twist arrivi così tardi. O meglio, andrebbe anche bene dove sta, se solo quello che viene prima fosse davvero interessante. Purtroppo i primi quattro episodi era sembrati sempre uguali a se stessi, oltremodo frustranti nell’accumulo di situazioni cristallizzate nello schema “ti faccio una domanda, non mi rispondi, aspetto un altro po’ prima di farti la stessa domanda”. Temo che molta gente abbia abbandonato la serie ben prima di sapere di ibernazioni e distopie (magari poi non gli sarebbe piaciuta comunque, ma è un altro discorso).
Non ci sono nemmeno molti elementi per elogiare la messa in scena, sempre molto tradizionale salvo qualche sequenza più emozionante o qualche scorcio più suggestivo (quasi tutti concentrati nell’episodio della rivelazione).
Soprattutto, a fronte della buona qualità del sorpresone centrale, la serie fatica a scuotere nuovamente lo spettatore, finendo poi col sacrificio di Ethan che si fa esplodere in un’ascensore: quanto di più banale e buttato lì si potesse concepire.
C’è poi la ciliegina (marcia) sulla torta (già di suo così così): quei secondi finali in cui Ben si risveglia e scopre una Wayward Pines in tutto e per tutto simile a quella che sua madre e gli altri sopravvissuti volevano eliminare. Com’è successo? Cos’è andato storto? Nessuno ce lo dirà mai: la serie è stata cancellata, e si sono rivelate vane le promesse degli autori che parlavano di un vero finale. Sì, ok, la vicenda principale si è effettivamente conclusa, ma non mi venite a dire che quei trenta secondi non sono un cliffhanger grosso così.
Insomma, Wayward Pines si inserisce nella lunga lista dei “peccato”: una confezione purtroppo deficitaria intorno a un’idea potenzialmente molto buona. Il fatto che molte altre serie estive non abbiano nemmeno quella singola idea deve per forza alzare il giudizio complessivo su Wayward Pines, ma allo stesso tempo aumenta la delusione per quello che avrebbe potuto essere e non è stata. Come dicevo: peccato.
NOTA BENE
Oh, detto tutto questo, io nelle ultime settimane ho guardato più volentieri Wayward Pines di True Detective. Non so se da questo fatto ricaviamo più elogio per la prima o più insulti per la seconda, decidete voi.