Proof – In cerca dell’aldilà perduto con Jennifer Beals di Marco Villa
La protagonista di Proof ha sempre una sfiga che combacia con quella del suo interlocutore: in pratica è la tessera universale del grande puzzle della sfiga
Prima di vedere un pilot, spesso non vado a leggere nessun accenno di trama. Per due motivi: a) mi cala drasticamente la voglia di vederlo b) mi faccio delle aspettative positive o negative imponenti come il bosco verticale. La trama di Proof l’avevo letta e di colpo avrei voluto firmarmi la giustifica per non vedere il pilot. Immaginatevi quindi lo stupore quando, dopo pochi minuti, mi trovo immerso in una scena girata con i controcazzi: un pianosequenza di quelli complicati ed emozionanti, pensati apposta per conquistare gli animi facili come il sottoscritto, ma comunque fatto da dio. E lì parte tutta la messa in discussione dei pilastri dell’esistenza: è possibile che una serie che vuole indagare sull’esistenza dell’aldilà (senza essere una serie cable stracolta) possa non essere una roba inguardabile? Tranquilli: era solo UN pianosequenza.
Proof è la nuova serie di TNT, che ha esordito con ottimi riscontri di pubblico il 16 giugno. Creata da Rob Bragin (uno che finora aveva fatto tutt’altro), ha per protagonista Jennifer Flashdance Beals, che non vedevamo seriamente in circolazione dai tempi di quella bella serie che si chiamava The Chicago Code.
In Proof, Beals è Carolyn Tyler, super chirurgo con grande dose di cinismo e un figlio tragicamente morto. C’è di più: è separata dal marito cornificatore e vive con la figlia pre-adolescente che non vede l’ora di diventare adolescente problematica. Le sue abilità lavorative e il suo cinismo vengono notate da un riccone, che le considera le doti perfette per una indagatrice di quella cosa chiamata aldilà: il riccone ha pochi mesi di vita e vuole sapere cosa lo aspetta. Lei ovviamente è reticente, ma no, ma dai, ma che cazzate, ma su, poi incontra una bambina che disegna robe del paradiso e bum, è dentro. In questa ricerca verrà aiutata da un assistente di colore, appena arrivato dal Kenya e tutto intriso di sensibilità, spiritualità e antiche tradizioni religiose.
Detta così è tremenda, lo so, ed effettivamente è una serie che non guarderei mai, però è in realtà molto meglio di quanto pensassi: c’è il pianosequenza già citato e una regia non piatta (ci credo: l’ha fatta Alex Graves, regista di Fringe, The Newsroom e Game of Thrones) e in più la parola dio viene pronunciata dopo 32 minuti, cosa su cui non avrei scommesso una lira.
Ad essere davvero fiacca, però, è la scrittura: Proof ci prova, si vede che si sforza di essere qualcosa di più ambizioso di un procedurale con gli spiriti, ma proprio non ce la fa. Carolyn è scritta con l’accetta e ha sempre una sfiga che combacia con quella del suo interlocutore: in pratica è la tessera universale del grande puzzle della sfiga. Roba da scrittura tirata via, un po’ come il labirinto del prefinale, una metaforona talmente piatta e palese da far cadere le braccia. L’unico vero sussulto narrativo arriva alla fine, quando viene lasciato intuire che la ricerca di Carolyn potrebbe non essere priva di rischi, ma non basta a entusiasmare gli animi di noi serialminder.
Una serie che sarebbe potuta essere detestabile, ma che si rivela solo estremamente prescindibile. Ok, adesso posso cancellare il pilot.
Perché seguirla: perché restate ipnotizzati da quel piano sequenza e perché siete succubi di Jennifer Beals da qualche decennio
Perché mollarla: perché è una serie su un medico che indaga sull’al di là… eddai!