9 Giugno 2015 74 commenti

Sense8: la serie di Netflix dagli autori di Matrix di Diego Castelli

Un sacco di carne al fuoco. Pure troppa.

Copertina Pilot, Pilot

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ATTENZIONE: QUESTO ARTICOLO COMMENTA I PRIMI DUE EPISODI DI SENSE8.
CHI SCRIVE NON HA ANCORA VISTO GLI ALTRI DIECI.
SE VOLETE DIRGLI CHE È STUPIDO FARE UNA RECENSIONE SU DUE EPISODI QUANDO NE HAI GIÀ LÌ DODICI, FATELO PURE, MA NON SPOILERATE!

 

Che poi non è affatto stupido. Certo, quando qualcuno spara fuori blocchi interi di episodi alla volta pare strano non vederli tutti prima di dare un’opinione. Però giudicare una serie tv da come si presenta (cioè dal suo inizio) ha sempre il suo bel valore e ci dà quel brivido della scommessa che purtroppo non riusciamo a ricavare da altri fonti, essendo noi bravi ragazzi morigerati.

C’era grande attesa per Sense8, nuova serie di Netflix.
Prima di tutto perché è di Netflix, che finora non ha ancora tirato fuori un telefilm “brutto”, al massimo “meno bello degli altri”. E poi per i nomi degli autori: Sense8 è prodotta, scritta e diretta dai fratelli Wachowski (autori della saga di Matrix) e J. Michael Straczynski, sceneggiatore cross-mediale che si è fatto ben volere sia in tv (è il creatore di Babylon 5), sia nei fumetti supereroistici, sia nel cinema.

Sono nomi che attirano molta attenzione ma anche qualche paura, soprattutto per quanto riguarda i Wachowski: dopo Matrix (che è il mio film preferito, quindi per-sempre-grazie) i due hanno avuto una carriera altalenante: applausi per la sceneggiatura di V per Vendetta, sostanziale indifferenza per Speed Racer, opinioni assai contrastanti per Cloud Atlas (io mi ci sono annoiato a morte), e buuu globali per l’ambiziosissimo Jupiter Ascending, floppone colossale.
Una cosa però faceva ben sperare: i Wachowski sembrano sempre un po’ “costretti” dal formato cinematografico, come se l’ampiezza potenziale delle loro storie non riuscisse a limitarsi a due ore di spettacolo ma dovesse in qualche modo debordare. Niente di meglio, dunque, che un tentativo con la tv, dove il problema-lunghezza si pone di meno e hai molto più spazio per raccontare.

Sense8 (4)

 

Il problema allora è: ce l’hai davvero qualcosa da raccontare?
Sense8 – che si pronuncia “senseit” e gioca sull’assonanza con la parola “sensate” (che è tipo “consapevolezza, percezione”, e tutta quell’area semantica lì) – parla di otto persone assai diverse per provenienza geografica e culturale, che da un giorno all’altro cominciano ad esperire una coscienza sempre più unita e sovrapposta gli uni con gli altri: percezioni, sensazioni e visioni condivise che creano comprensibile smarrimento ma anche un’immediata voglia di scoprire cosa diamine sta succedendo. Per dire: se ti viene duro solo perché due persone lontanissime da te stanno scopando, qualche domanda te la devi fare, e anche andare dall’andrologo potrebbe non risolvere il problema.
Sullo sfondo degli otto ci sono ovviamente persone misteriose che ne sanno più di loro e hanno in serbo chissà quale piano, primo fra tutti Naveen Andrews – mitico Sayid di Lost – che ha il mandato di trovare i sensates per aiutarli a gestire la loro nuova condizione.

Con la loro messa in scena molto ricca e riprese colorate in ogni parte del mondo, i Wachowski sembrano riprendere alcune tematiche già viste in altri lavori precedenti, soprattutto il citato Cloud Atlas: un’idea di connessione globale, di filo rosso che unisce identità ed esperienze diverse, e in ultimo la ricerca del proprio posto nel mondo. Aggiungendo anche spunti autobiografici (uno dei fratelli Wachowski, “Larry”, è diventata “Lana” pochi anni fa), i personaggi di Sense8 sembrano tutti manchevoli di qualcosa e ansiosi di trovare la loro strada: c’è l’attore sex symbol che però è segretamente gay; c’è il guidatore di pulmini africano che si fa pagare a galline; c’è l’indiana che non sa se ribellarsi a un matrimonio combinato con una persona che non ama; c’è la blogger transessuale con annessa madre stronza, e via dicendo. Tutti pezzi di un puzzle che sembrano avere poco senso da soli ma che dovrebbero averne uno ben più solido una volta uniti insieme.

Sense8 (2)

 

Quindi insomma, tanta carne al fuoco, un sacco di personaggi importanti fin da subito, e un progetto ambizioso dal respiro letteralmente globale.
Sì va bene, ok, ma funziona?
Nel corso dei primi due episodi la risposta è prima “no”, poi “nì”, poi “boh, speriamo”.
Il problema principale dell’inizio di Sense8 è proprio la vistosa bulimia narrativa: gli autori mettono sul piatto talmente tanta roba, che la quasi totalità dei 65 minuti di pilot va via solo a presentarci i personaggi e le loro percezioni condivise. Il risultato immediato sono la ripetitività e la noia: nessuno dei personaggi riesce a essere da subito così interessante da inchiodarci alla poltrona. Più che nei singoli, il cuore della serie sta nelle connessioni, ma proprio la costruzione di queste connessioni è l’aspetto cruciale e inizialmente più faticoso dello show. Tanto più che Sense8 non può nemmeno fregiarsi di chissà quale originalità, visto che per trovare un mondo pieno di fili e rimandi interni basta tornare indietro di tre anni e riguardare Touch, che non era neanche sto gran telefilm.

Quello dei Wachowski, ora più ora meno, è sempre stato un racconto audiovisivo dichiaratamente poetico, dove il flusso di immagini e suoni puntava a essere spettacolo di per sé, fascinazione multisensoriale al di là della semplice sceneggiatura. Questa è un’impostazione coraggiosa, sempre lodevole nelle intenzioni, ma che ovviamente gioca sul filo dell’eccesso. Per questo qualcuno vi dirà sicuramente che il pilot di Sense8 è mistico, fiabesco e affascinante; io vi dico che è pomposo e vagamente arrogante. Troppe immagini che vogliono essere “fighe”, troppi momenti che dovrebbero essere “wow”, e l’unica cosa di cui hai bisogno, ma che nessuno sembra volerti dare, è una fottutissima storia da seguire.

Sense8 (3)

 

Il secondo episodio mi è parso già migliore, perché il ruolo di Jonas (il personaggio di Andrews) diventa più pregnante e si cominciano a intravedere anche le linee più semplici ed efficaci della trama, basata a conti fatti sulla caccia (o al contrario la protezione) dei sensates, mentre questi cercano di capirci qualcosa delle cose che sentono e della tizia vestita di bianco che continuano a vedere ovunque. Volenti o nolenti, le serie tv non sono fatte per la sola poesia (su cui invece può basarsi un singolo film): le serie tv hanno sempre bisogno di una base narrativa solida e possibilmente semplice, sulla quale poi costruire quello che si vuole. Ecco, la base di Sense8 compare solo al secondo episodio, e comunque a sprazzi.

Per questo dicevo no, poi nì, poi boh speriamo. La speranza, a questo punto, è che gli altri episodi siano un crescendo di tensione (tensione drammaturgica, non nel senso di “suspense”). La speranza è che i Wachowski abbiano usato la formula-Netflix dei tot episodi in una volta per permettersi un racconto che sia davvero unitario, come un lungo film di cui la prima ora è solo una piccola introduzione.
Deve essere chiaro che ciò non toglie nulla al fatto che nei primi 60 minuti io mi sia scartavetrato i coglioni: questo è un problema, punto e basta. Ma non è detto che ora della fine non ne sia valsa la pena.
Per quanto mi riguarda, vado avanti con circospezione: spero nella crescita e nell’esplosione di un raccontone clamoroso. Rimane la paura che si risolva tutto in una pippa metafisica e senza capo né coda. Ci risentiamo alla fine.

Perché seguirla: per l’ambizione del progetto, che merita un’attenzione non superficiale, e per il curriculum degli autori.
Perché mollarla: il pilot è pesante e spesso confuso, e non riesce mai a rispondere a una fondamentale domanda: “ma quindi?”

 

Sense8 (1)



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