Banshee 3 Season Finale: la miglior serie (non) tratta da un fumetto di Diego Castelli
Quando uno ha uno stile
MI PARE OVVIO CHE CI SONO SPOILER
Siamo sempre qui a parlare dei Game of Thrones e dei Breaking Bad, come probabilmente è inevitabile, ma intanto la fine della terza stagione di Banshee fa male non poco.
Ne volevamo di più, e dieci episodi sembrano sempre troppo pochi.
È stata una buona stagione, a mio giudizio migliore della seconda, e se vogliamo elencare i pregi di Banshee il discorso è bene o male sempre quello.
Parliamo di una serie molto visiva, concreta, maschia nel senso più muscolare e sanguinoso del termine. Una serie che si guarda in primo luogo per istinto, per il piacere tutto scopico di guardare eroi travagliati e segnati dalla vita che combattono all’ultimo sangue nemici cattivi e pericolosi. La coreografia di una scazzottata, il montaggio di una sparatoria, l’intensità di uno sguardo macchiato di sangue sono importanti metri di giudizio per Banshee, come se stessimo assistendo a un balletto (magari un po’ deviato) più che a una storia scritta su carta.
Allo stesso tempo, il pregio di Banshee è sempre stato quello di inserire quel piacere in qualche modo primitivo in una cornice in cui la storia c’è eccome. Al cinema ti puoi permettere 90 minuti di storia esile e immagini forti, ma in televisione dieci episodi così non sarebbero concepibili. E allora Banshee punta anche su una sceneggiatura solida e precisa, e questa stagione l’ha confermato ancora una volta: le sfide con indiani e militari, la morte di Siobhan e poi quella di Gordon, i primi accenni finali al passato di Hood (argomento tutto da esplorare).
Giocando semplice, senza strafare a tutti i costi, Banshee ha fatto tutto quello che doveva: ha chiuso storie iniziate l’anno scorso, cominciando a lasciare semi più o meno importanti per quelle dell’anno prossimo. Niente più, e niente meno. E la cosa va benissimo, se ci permette di avere il season finale che abbiamo visto: tamarro, intenso, caricato a pallettoni, con buone sorprese e un cliffhanger magari non originalissimo, ma che diventa potente in virtù dell’affetto indiscusso che proviamo per Job. In più, come ultimo dettaglio, ci sono le dimissioni forse definitive di Hood, con gli autori che in un’intervista dichiarano che il periodo da sceriffo è probabilmente passato davvero. Insomma, attendiamoci parecchie novità.
A parte tutto questo, però, è bene porre l’attenzione su un aspetto che finora abbiamo approfondito poco. Al momento, Banshee è probabilmente la serie più fumettosa in circolazione, col paradosso di essere una delle ormai poche che da un fumetto non è tratta.
È chiaro che se pensiamo al fumetto portato in tv non ci viene in mente Banshee ma piuttosto Arrow o The Walking Dead. Eppure, in termini visivi, narrativi e dialogici Banshee sembra presa di peso da un albo di carta.
Pensiamo alle tipologie di personaggi, così netti e precisi: l’eroe senza nome quasi invincibile, gli indiani cattivi, l’asiatico hacker dalla battuta pronta, la bella misteriosa dallo sguardo seducente.
Sempre riguardo i personaggi ci sono poi scelte ancora più nitide, di casting, di recitazione, costumistiche. Pensiamo a uno come Burton. Un assistente quasi muto, con lo sguardo da matto, sempre ben vestito ma pronto a far scattare attimi di crudissima violenza. Pensiamo ai suoi sguardi, al modo in cui piega la testa. È tutto caricatissimo, in larga parte irrealistico, appunto fumettoso. Il bestione pellerossa, il boss della mala cieco, la base militare da assaltare, l’ex nazista che fa il poliziotto pur avendo mille mila svastiche tatuate sul corpo, perfino la locandina: vanno tutti nella stessa identica direzione. E non è un caso che sia stato prodotto anche il fumetto di Banshee Origins, la webserie che accompagna online la sorellona maggiore.
Ma il discorso va anche oltre, nella “gommosità” dei corpi, capaci di sostenere intensissime sessioni di pestaggio, nella ferma plasticità di molte inquadrature, nella ricerca insistita della battuta ad affetto, specie quando i personaggi sono in situazione di grande difficoltà.
Orgogliosamente immune da qualunque forma di realismo (non dimentichiamo che alla base di tutto c’è un criminale che si sostituisce a uno sceriffo e nessuno di accorge di niente per mesi e mesi), Banshee attinge al fumetto, al western e a certa cinematografia anni Ottanta per costruire un’Isola che non c’è staccata dal mondo e piena di personaggi immediatamente riconoscibili, quasi iconici, la cui narrativa densa e spettacolare non nasconde (giustamente) una precisissima ricerca di stile.
E ora andiamo a salvare Job.