American Horror Story Freak Show: comunque meglio di Coven di Diego Castelli
Tra alti e bassi, una buona stagione
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OVVIAMENTE È PIENO DI SPOILER!!!
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Diciamolo subito, per sgomberare il campo da ogni dubbio: Freak Show è stata molto meglio di Coven. Pure di molto.
Non che ci volesse chissà che, considerando che ho visto cose più disturbanti in The Vampire Diaries di quanto non ce ne fossero in quella specie di teen drama della terza stagione di American Horror Story.
Che si potesse fare meglio lo si sapeva fin dalla premiere, magari anche da prima: l’idea del freak show, dell’accozzaglia di deformazioni e mostritudine, sembrava già più sfruttabile e meno consueta rispetto alle streghe, di cui la tv era già sufficientemente piena (il che peggiora solo la valutazione di Coven, che usava un tema ipersfruttato senza cercare di dargli una sterzata davvero disturbante).
Gli episodi successivi hanno confermato la prima ipotesi: Freak Show è stata una buona stagione, che ci ha riconciliato con ciò che ci piace di AHS: il gusto per l’eccesso,la voglia di sperimentare, la capacità di stupire lo spettatore non tanto (o non solo) per quello che succede, ma anche e soprattutto per il “come”.
Come già le precedenti, questa stagione ha proceduto soprattutto per accumulo. Non credo che ci resterà nella mente per la sua costruzione narrativa, mentre invece la ricorderemo volentieri per alcune immagini forti e significative, non necessariamente tutte orrorifiche: se il volto di Twisty The Clown o il destino della madre di Dandy sono cose da non dormirci la notte, non meno forti sono le esibizioni iper-truccate di Jessica Lange (per me la Life on Mars iniziale, meravigliosamente anacronistica, è ancora la migliore), o l’uso di un attore come Neil Patrick Harris per far cozzare la sua fama seriale pulita e divertente con immagini sanguinolente e disturbate (in maniera più consapevole ed efficace, giusto per dirvela tutta, di quanto fatto al cinema da David Fincher con Gone Girl).
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La predominanza quasi inevitabile della componente visiva lascia comunque spazio per qualche riflessione di tono più generale. Nel suo “mettere in scena una messa in scena”, Freak Show era dichiaratamente la stagione più metatestuale finora proposta da Ryan Murphy e soci, e alcune tematiche sono emerse in modo abbastanza esplicito: partendo dal sogno di Elsa Mars di diventare una grande star, arrivando al più umile dei suoi “artisti”, che possono guadagnarsi da vivere solo mettendo in mostra la propria deformità, Freak Show diventa una facile ma potente metafora dell’industria hollywoodiana, e probabilmente non solo. Una metafora evidentemente agrodolce, perché se è vero che i freaks riescono a guadagnarsi il pane e a essere perfino una sorta di famiglia grazie al circo, allo stesso tempo è lo stesso circo che prima li emargina – accogliendoli ma creando una inevitabile barriera da e verso l’esterno – e alla fine concretamente li uccide quasi tutti.
In questo senso, il personaggio caricatissimo di Dandy è quasi uno specchio dello spettatore viziato ed esigente a cui la stessa Hollywood deve guardare con rispetto e timore: Dandy è prima di tutto uno spettatore dei freaks, ne è affascinato, è disposto a finanziarli e a proteggerli. Questo però finché si comportano come vuole lui e fanno ciò che dice lui, perché appena provano a ostacolare la sua individualità e il suo ego, vanno incontro a una morte fredda e cieca, talmente anaffettiva (anche da un punto di vista registico) da rendere quasi ininfluente la loro intera esistenza: sì, avete divertito molti, e sembravate avere un valore, ma quando lo spettatore ha deciso che per voi era finita, siete quasi letteralmente scomparsi.
A ulteriore conferma dei pericoli del palcoscenico c’è la stessa Elsa, ormai ben lontana dalla furia distruttrice di Dandy, ma anche lei condannata alla non-felicità, per lo meno sulla Terra: una volta staccatasi dai suoi amici, Elsa raggiunge l’agognato successo ma non la felicità, che invece è possibile solo nella vita dopo la morte, dove la protagonista, manco a farlo apposta, troverà reale soddisfazione nella possibilità di esibirsi di fronte a un pubblico questa volta ricettivo e ospitale, in compagnia delle persone a cui vuole bene.
Pare chiaro, insomma, che da Hollywood si può anche uscire felici (vedi Bet, Dot e Jimmy), ma sappiate che la maggior parte verrà sezionata, maciullata, ammazzata.
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Alcuni hanno fatto notare che la fine di Elsa è fin troppo gentile, considerando che la donna, all’inizio della stagione, non era affatto un angioletto meritevole della compassione del pubblico. Era invece un’arrivista senza scrupoli che sì, poteva nutrire un certo affetto per i suoi freaks, ma che comunque li vedeva più che altro come strumenti per la sua scalata al successo (che peraltro avviene).
Questo è uno dei classici problemi di American Horror Story: la sua natura di serie antologica, unita alla bulimia creativa degli uomini di Muprhy, ha sempre portato a stagioni largamente caotiche, dove i fili narrativi trovavano tutti più o meno compimento, ma lo facevano (e lo fanno) con rapidità a volte eccessiva. Se ripensate ai primi episodi di questa stagione, con il clown, Dandy e sua madre, e l’arrivo delle gemelle a due teste (o “due teste gemelle” non so bene come si dica), sembra di parlare di quattro anni fa. In mezzo sono successe mille mila cose, passati mille mila personaggi, alcuni usciti in modo brutale e non sempre soddisfacente, o magari semplicemente lasciati lì in disparte fino al momento di riprenderli dopo, magari dal nulla. Così è anche per Elsa, il cui percorso ha una sua coerenza e una sua logica (fatta anche di dolorosi flashback che ne addolciscono la posizione) ma rischia di sembrare comunque troppo rapido.
Per questo, in definitiva, ritengo Freak Show una buona stagione, ma ancora una gradino sotto Asylum: in quell’occasione la bulimia narrativa era largamente compensata dalla devianza visiva, e la cacofonia di storie e temi (medici, pazienti, diavoli, alieni ecc ecc) riusciva a passare in virtù della sua carica innovativa. Questa volta, un po’ come accade agli eredi di Lost (figli di un genitore imperfetto ma potentissimo), la visionarietà di Freak Show e certi suoi meravigliosi tocchi di classe – come la puntata crossover tutta incentra su Pepper – non sono riusciti a nascondere una certa confusione di fondo, in cui i pesi compositivi sono andati un po’ per i fatti loro.
Per superare se stessa, American Horror Story avrebbe bisogno di una stagione ugualmente densa di immagini e suggestioni, ma che sia anche più equilibrata e precisa nella sua costruzione.
Anche se, tocca ammetterlo, a quel punto forse non sarebbe più American Horror Story.
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