Foto rubate: Lena Dunham in difesa di Jennifer Lawrence di Diego Castelli
Il furto di foto private di molte star impone un momento di riflessione
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Il fatto del giorno, evidentemente, è il furto e la pubblicazione su Internet di numerose foto di nudo (o comunque molto private) delle più varie star hollywoodiane.
Se la più famosa è Jennifer Lawrence, ci sarebbero anche altri nomi più o meno di spicco tra cui Lea Michele, star di Glee, Kate Upton e altre.
Ci sembra che le parole più nette e decise siano state pronunciate da Lena Dunham, creatrice e protagonista di Girls, la cui opinione diventa in qualche modo più importante di altre proprio in virtù della disinvoltura che l’autrice ha sempre mostrato nella messa in scena del proprio corpo.
La netta differenza, nelle sue parole, sta proprio qui: un conto è mostrare più o meno pelle quando vuoi farlo, un conto è vedersi rubare delle foto che non erano in alcun modo pensate per essere rese pubbliche.
Ecco le parole della Dunham su twitter:
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La questione, evidentemente, è delicatissima, e l’equiparazione dello sguardo buttato sulle foto a vera e propria violenza colpisce come un pugno chi si è fatto tentare.
Per quanto ci riguarda, non vorremmo scivolare nella riflessione moraleggiante, dubitiamo di averne il diritto. Allo stesso tempo, però, è un tema che vale la pena approfondire, perché di certo non riguarda solo le celebrità americane.
Fare gli idealisti a tutti i costi non serve a molto: sappiamo in che mondo viviamo, e sappiamo ognuno di noi com’è fatto. In questo senso, credo sia difficile condannare il puro sorgere della curiosità (più o meno morbosa) di fronte a una notizia del genere. Non raccontiamoci frottole: se escono delle foto di Jennifer Lawrence nuda, ci viene voglia di vederle, punto e basta.
Se però, da una parte, la curiosità è biologicamente comprensibile, è assai dura contestare la posizione di Lena Dunham.
Ovvio, un attore di Hollywood sa che spesso la privacy è il prezzo da pagare per la fama. Ma questo non può diventare un alibi per chiunque, perché c’è un fatto difficilmente aggirabile: una ragazza ha fatto delle foto che voleva rimanessero private, e qualcuno gliele ha rubate per farle vedere a tutti. Che la ragazza si chiami Jennifer Lawrence, Lea Michele, o che sia una vostra compagna del liceo o vostra sorella, cambia davvero poco. Non siamo nemmeno nell’ambito della politica, dove il tema della trasparenza personale acquista ulteriori e più complicate sfumature.
Oltre a questa considerazione si aggiunge un ulteriore problema, più generale, che molti giornalisti americani stanno mettendo in luce in queste ore. Se ci fate caso, le vittime di questo tipo di hackeraggio sono quasi sempre donne. Sono donne perché il nudo vip femminile tira di più, perché i più interessati a questo tipo di intrusione sono gli uomini. Si arriva insomma a quel tema della donna-oggetto che in questi anni suona quasi vecchio, passato di moda, ma che deve tornare tema centrale di discussione nel momento in cui una donna come Jennifer Lawrence (o chi per lei) viene ridotta a puro corpo, agglomerato di carne senza personalità, paure e desideri, la cui unica funzione è farsi dare una bella guardata.
E il problema sarebbe in qualche modo più contenuto, se la “visione” fosse il primo e unico scopo dell’utente di turno. La grande questione, invece, riguarda il fatto che nella maggior parte dei casi alla visione si aggiunge un “giudizio”. Buona parte delle persone che rilancia le foto su internet lo fa aggiungendo un giudizio morale sulla persona, un giudizio necessariamente parziale, ma soprattutto un giudizio profondamente ipocrita, perché il 99% di noi fa cose a casa sua che non vorrebbe mai far vedere a nessuno, con la differenza che non c’è un hacker o un paparazzo che tenta di scoprirle, perché della nostra vita non frega niente a nessuno. Sono cose che possono rovinare carriere, che possono quasi far comparire bollini rossi in testa alle persone, che da quel momento saranno per sempre “quella che ha fatto quelle foto là”. Come se, ancora una volta, una singola immagine privata possa (o addirittura debba) essere l’unica base sulla quale valutare un essere umano. Su internet poi, dove rimane tutto, potenzialmente per sempre.
Il discorso, in buona sostanza, ci sembra vertere sull’esistenza di un confine. Troppo facile, e abbastanza meschino, giustificare la visione delle foto con il classico “se non voleva rischiare di farle vedere non avrebbe dovuto scattarle”. La risposta necessaria e doverosa a questa affermazione deve essere “fatti i cazzi tuoi”.
Ci sembra più giusto, invece, registrare da una parte l’esistenza de facto di una varietà di sfumature: anche questo stesso articolo, in fondo, potrebbe essere accusato di montare sempre di più il caso e far del male alle vittime, e idem per le parole di Lena Dunham, anche se la “colpa” è talmente diffusa e divisa tra così tanti siti, che ci viene facile far finta di niente. Dall’altra parte, però, rimarcare il fatto che un confine deve esistere.
Sta alla responsabilità personale di ciascuno, in questo come in altri casi, decidere di attraversare quel confine, sapendo qual è il prezzo in termini etici, morali, o addirittura penali. Ma la cosa peggiore che possiamo fare, questo sì, è fingere che ci siano persone per cui un confine non esiste. Perché domani potremmo trovarci nella loro stessa situazione, e allora un confine lo vorremo eccome.