Utopia è un meraviglioso teatro delle marionette di Marco Villa
È (già) finita la seconda stagione di Utopia
Sei puntate, solo sei puntate. La via inglese alla serialità ha i suoi pro e i suoi contro, ma quando aspetti oltre un anno una serie come Utopia, sei episodi vanno davvero stretti. Sei puntate che poi sono in realtà 5+1, dove quella isolata è ovviamente la prima, differente per ambientazione e stile visivo. Come abbiamo già detto dopo la messa in onda, si tratta di un gran puntata, di una ri-partenza a bomba per una serie tv che con la prima stagione aveva suscitato entusiasmi al di sopra della media e delle attese.
La prima puntata è forse la più intensa e compatta della seconda stagione, perché le restanti cinque confermano il trend generale della serie, capace di entusiasmare più con singole scene che con una perfetta costruzione generale. Non deve suonare come una critica severa, perché quelle singole scene sono talmente potenti da colpire davvero forte (non è un caso che Utopia sia finita praticamente sempre nei nostri amati Serial Moments settimanali).
Trattamento simile per i personaggi, che non attraversano una vera e propria crescita o trasformazione, ma vivono a sprazzi, a intermittenza. Utopia non è una serie basata su un grande scavo psicologico: così come il Network manipola tutto e tutti, allo stesso modo l’autore Dennis Kelly gioca con le proprie creature come se fossero marionette. Come già accennato un anno fa, Utopia è una serie senza protagonisti, in cui qualsiasi personaggio secondario, anche uno completamente nuovo, può prendersi il centro della scena in pochi secondi e diventare indimenticabile, come accade, ad esempio, con l’agente dormiente che stermina la famiglia in apertura della quarta puntata.
Questa riduzione a marionette dei personaggi normalmente accade in presenza di una narrazione forte, in grado di coprire le mancanze dei protagonisti e di soddisfare comunque pienamente lo spettatore. In Utopia questo non avviene, ma chi guarda resta comunque pienamente soddisfatto. La ragione è che lo spazio vuoto che separa le varie scene clamorose è riempito da una regia pazzesca. Se per la prima stagione poteva valere l’effetto sorpresa, adesso la reale forza visiva è ancora più evidente e i registi, in particolare Marc Munden, meritano applausi.
Ci sono i colori e la fotografia, ma c’è anche una direzione degli attori che fa paura per quanto è curata. Poco fa si parlava di marionette e proprio questo è il riferimento che viene in mente in alcune scene, quando si osserva come vengono fatti muovere gli attori: pensate ai movimenti scattosi di Jessica e Pietre, ma anche a quelli rigidissimi degli agenti dormienti e a quelli nevrotici di Philip Carvel. A metà strada tra marionette e ballerini, ma mai naturali. Gli unici a muoversi senza nessun accento sono quelli normali, i vari Ian e Becky, ovvero quelli noiosi e piuttosto inutili (che pesantezza Ian, madonna).
Ultimo aspetto: le musiche. L’esplosione sui titoli di testa è ogni volta una botta di adrenalina, ma l’insistenza e la sottile ossessività con cui viene fatto sparire e poi riemergere il tema principale è qualcosa di davvero grosso. Si arriva così alla conclusione che l’aspetto meno curato è quello narrativo. Roba strana, visto che è normalmente la parte più importante di una serie tv. Ma va bene così, va benissimo così: Utopia è diversa, deve rimanere tale e amen per i suoi difetti. La terza stagione non è ancora stata confermata, ma dovrebbe esserci. Per permetterci di continuare il nostro album di scene devastanti. In attesa della versione HBO firmata David Fincher.