Satisfaction: quando il sogno americano scricchiola di brutto di Diego Castelli
Cosa fai quando la tua vita comincia a farti schifo?
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Arriviamo un po’ in ritardo con la recensione di Satisfaction, nuovo drama di Usa Network, semplicemente perché… be’ perché è agosto dai, non mi mettete in difficoltà.
Però devo dire che questo ritardo giova assai alla recensione, perché con Satisfaction, più di altre volte, la visione degli episodi immediatamente successivi al pilot consente di comprendere una sfumatura importante che il primo episodio rischia colpevolmente di nascondere.
Satisfaction racconta la storia di Neil Truman (interpretato da Matt Passmore), un operatore finanziario sposato e con figlia che a un certo punto scopre il tradimento della moglie: la donna occupa il troppo tempo da sola con un gigolò che quando parla la ascolta, e quando non la ascolta è perché la sta trombando di gusto.
La scoperta, unita alla consapevolezza che la sua vita è tutta lavoro e niente svago (e da Shining sappiamo che non è mai una buona idea), costringe Neil a un ripensamento globale, alla ricerca di nuove strade per trovare, come titolo suggerisce, soddisfazione dalla vita.
Come si diceva, il primo episodio potrebbe fuorviare un po’. Non fosse altro perché Neil, nel primo momento di vera ribellione, si incazza come una iena contro un’arrogantissima assistente di volo e si vendica aizzando la folla di passeggeri, per poi fuggire dall’aereo prendendo possesso dello scivolo gonfiabile. Giù il sipario e applausi.
Capite bene che questa scena suggerisce un determinato mood, potrebbe far pensare a una storia di matte risate, di grandi rivincite, a un protagonista completamente folle e presto ai margini di qualunque regola sociale. E non dite che non avreste voglia di provare lo scivolo gonfiabile dell’aereo, perché non ci credo.
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Una storia (tutta) così potrebbe probabilmente avere senso per un film scacciapensieri, 90 minuti con un Jim Carrey che si tuffa in qualche situazione surreale – piena di aperitivi e tette siliconate – salvo poi accorgersi che quello che più desidera è un sorriso della figlia. Da Natale e dintorni.
Ma se parliamo di una serie tv, allora il rischio di una consunzione prematura del concept sarebbe parecchio reale. Questo però, come si diceva, è solo una possibile impressione iniziale. Perché in realtà gli autori di Satisfaction vogliono raccontare altro.
Il nocciolo della questione riguarda il fatto che la ribellione di Neil, pur portando qualche frutto importante (tipo il fatto che Neil stesso diventa gigolò a tempo perso, ovviamente senza che la moglie sappia nulla di nulla), non riesce comunque a farlo uscire dalla gabbia che è diventata la sua esistenza.
Emblematiche sono le conseguenze della sbroccata in aereo: dopo quel momento di rivincita e grande entusiasmo, Neil rischia di finire in galera, di perdere il lavoro, insomma di mandare a puttane tutta la sua vita. Ecco dunque la complessità della serie, nonché la base di una più efficace orizzontalità: la “satisfaction” del protagonista non può venire da un singolo atto di trasgressione. Deve invece essere un processo più lungo, in cui piccole conquiste vengono sporcate da nuovi problemi, e in cui il sogno americano (lavoro-moglie-figli) è rappresentato come una gabbia da cui non è poi così semplice uscire, in termini fisici e mentali.
Il discorso messo in piedi da Satisfaction è dunque volutamente realistico, per lo meno nelle sue componenti psicologiche: la voglia di riscatto dell’uomo moderno, la necessità di trovare una dimensione più piena e soddisfacente dell’esistenza, viene fatta scontrare con l’oggettiva difficoltà di prescindere da un mondo di limiti, doveri e contratti che non può essere spazzato via con un soffio di buona volontà, perché la vita vera è una stronza e non te ne dà il permesso. Insomma, salvare capra e cavoli non si può.
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Questo è il maggior pregio di Satisfaction, la sua capacità di essere un drama di ottimi spunti, ben gestito da buoni attori e da una struttura dialogica e narrativa efficace.
Il “contro” più evidente è proprio la possibile rottura del patto iniziale con lo spettatore, con conseguente rottura delle balle dello stesso.
Satisfaction è una bella serie, ma non è un telefilm divertente come l’inizio lascia pensare. Non è nemmeno un telefilm “leggero”. E’ invece un drama vero, che pur non disdegnando momenti più soft (vedi i dialoghi con la guida spirituale buddista) vuole avere uno spessore bello robusto.
Dopo la visione di cinque-sei episodi, mi sento di dire che finora è mancato solo un vero salto di qualità. Forse proprio a causa di un tema solo apparentemente semplice, Satisfaction non è ancora esplosa. Sta solleticando molto bene il cervello, forse un po’ meno il cuore e la pancia, e si sa quanto è importante, per un prodotto seriale, che la visione del prossimo episodio sia legata non solo a una curiosità in qualche modo filosofica, ma anche a una vera e propria urgenza istintiva.
Staremo a vedere, ma per ora continuo a darle fiducia.
Perché seguirla: il tema di fondo è tutt’altro che banale, e i personaggi possono evolvere in modo imprevedibile.
Perché mollarla: è una serie molto più densa (e quindi potenzialmente pesante) di quello che il concept e buona parte del pilot potrebbero far pensare.