Tyrant – La serie tv nipote di Homeland di Marco Villa
Dopo vent’anni Bassam torna nel Paese governato dal padre e iniziano i casini. Ecco Tyrant.
Lo sappiamo bene: l’ultima stagione di Homeland è stata una delusione totale. L’ho scritto più di una volta (tipo qui e qui) mentre andava in onda e a freddo il giudizio non è cambiato. Una stagione non può però cancellare l’entusiasmo per le due annate precedenti, perché la storia di Carrie e Brody è senza dubbio tra le più forti degli ultimi anni. Per chi non lo sapesse, Homeland è l’adattamento USA di Prisoners of War, serie israeliana creata da Gideon Raff. E qui arriva il motivo di tutta questa pappardella iniziale: Gideon Raff è infatti il creatore di Tyrant, nuova serie tv di FX in onda dal 24 giugno.
Se Raff firma come creatore, lo sviluppo di Tyrant è invece responsabilità di Craig Wright e Howard Gordon, quest’ultimo al lavoro già su Homeland. Tyrant è la storia di Bassam, secondogenito del tiranno di Abuddin, un immaginario paese arabo. Dopo un’infanzia vissuta all’ombra del fratello maggiore, scelto fin da subito dal padre per la successione, negli anni dell’università Bassam espatria negli Stati Uniti, dove studia medicina, si laurea, si sposa, figlia (due volte) e inizia una carriera come pediatra. Nel frattempo, in patria il padre continua a governare senza un briciolo di democrazia, mentre il fratello maggiore passa le sue giornate tra Ferrari, donne e un po’ di sana violenza contro gli oppositori politici di papà. Con la scusa di un matrimonio, dopo vent’anni Bassam torna a casa e qui iniziano i casini: padre muore, fratello è fuori controllo e lui si trova costretto a rimanere, per salvare il buon nome della famiglia e – incidentalmente – l’intero paese.
Questa a grandi linee la trama. Subito in evidenza l’originalità del plot: una serie tv ambientata totalmente all’estero e incentrata su un paese straniero è qualcosa di diverso e di potenzialmente sovversivo. Non parlo di politica o di effettiva rivolta, quanto di un totale allontanamento da anni e anni di serie geopolitiche incentrate sugli USA. Mutato il centro della narrazione, tutto può cambiare. Una mossa intelligente, che però deve essere fatta con estrema attenzione, perché il rischio principale è quello di fare una serie stereotipata e superficiale. E in qualche modo Tyrant non riesce a evitare questa trappola, principalmente per un motivo: parlano tutti in inglese. Prego, regia.
Quando guardiamo una serie che presenta figure o ambientazioni non anglofone, siamo abituati a vedere passaggi in cui alcuni personaggi parlano nella loro lingua madre, con sottotitoli annessi. Essendo ambientato in toto all’estero, Tyrant dovrebbe essere in buona parte sottotitolato e la cosa ovviamente non starebbe in piedi, perché una serie in arabo sottotitolato sarebbe una cosa di super nicchia. Come hanno risolto gli autori? Semplice: parlano tutti inglese, ma un inglese con un fortissimo accento mediorientale. Se la cosa regge quando i personaggi dialogano con Bassam, la faccenda perde completamente senso quando parlano tra di loro. Nel secondo episodio c’è una scena in cui due guerriglieri-ragazzini parlano tra loro in modo concitato di ciò che devono fare e il dialogo è tutto in un inglese super-maccheronico: è una scena forzatissima, ma la sensazione che qualcosa non torni è costante. Può sembrare una pignoleria, ma di fatto è un punto cruciale, perché mina alla base la credibilità di tutta la serie.
Staccandosi un attimo da questo aspetto, Tyrant si configura come una serie che viaggia con un onesto pilota automatico, garantisce una buona qualità media e non disdegna alcuni guizzi (come la conclusione del flashback dell’infanzia nel primo episodio). Dalla visione dei primi due episodi la sensazione è che sia una serie piuttosto solida, ma non destinata a diventare un capolavoro. Il motivo principale, oltre al discorso linguistico di cui sopra, è una schiera di personaggi che non brillano per carisma, a cominciare dal protagonista e passando per il fratello (tagliato con l’accetta) e i vari comprimari. Allo stesso modo, anche le varie sottotrame sono tutto tranne che un concentrato di storie appassionanti. Resta l’originalità del concept, che dovrebbe comunque garantire un po’ di autonomia a Tyrant.
Perché seguirla: per il concept e l’ambientazione, entrambi radicalmente diversi
Perché mollarla: per la faccenda linguistica e per dei protagonisti che non riescono a imporsi