Bates Motel 2 – Ok voler bene alla mamma, ma non esageriamo! di Diego Castelli
Il vero e forse unico motivo per seguire davvero Bates Motel
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Quando si guardano molte serie tv, e nel frattempo si cerca di recensirle più o meno tutte, è inevitabile il rischio di fossilizzare il giudizio su una rapida dicotomia tra “bello” e “brutto”. Eventualmente si può aggiungere il “così così”, categoria per esempio sconosciuta al Villa.
Oggi parliamo di Bates Motel, grazie al quale vorrei introdurre la categoria delle serie che vale la pena guardare giusto per un solo elemento.
Nel complesso Bates Motel non è una serie “clamorosa”. Certo, dal pilot troppo debitore di Psycho ai primi esperimenti da killer di Norman è stata fatta parecchia strada, e molti errori sono stati corretti. Uno per tutti la vita scolastica di Norman, forse la componente meno credibile e interessante della storia, quasi del tutto cancellata nella seconda stagione. Così come i debiti e gli omaggi verso Psycho, che sono passati dall’ansia da prestazione del pilot a rimandi più sottili e meno urlati (e per questo più apprezzabili).
Detto questo, la serie non è diventata un capolavoro, semplicemente perché non riesce a trasmettere quella sorpresa e quel senso di perfezione che solo certi fortunati prodotti possono comunicare. Le beghe criminali del fratello di Norman, così come quelli della madre, e anche quel po’ di teen romance che scorre a fasi alterne tra il protagonista ed Emma, sono tutte cose gestite decentemente, ma nessuna di queste ha la forza per imporsi davvero in un panorama seriale che di criminali e romanticherie è pieno fino all’orlo.
C’è però un elemento, di Bates Motel, che da solo vale il prezzo del biglietto, anche se da un punto di vista puramente quantitativo occupa sì e no un 20-25% di ogni episodio. È un elemento però centrale, è l’Elemento, se si sta parlando di Norman Bates. Parliamo ovviamente del rapporto tra Norman e sua madre.
Che fosse una relazione importante si sapeva ancora prima del pilot, perché sapevamo, dal film di Hitchcock e magari pure dal romanzo, che Norman è un serial killer la cui testa è piena delle voci della madre, che nel film è ormai una mummia rattrappita su una sedia (mummia nel senso di “morta e mummificata”, non nel senso di “persona anziana trattata con poco rispetto”).
Il Villa, nella sua recensione del primo episodio ormai un anno fa, parlando di vera Farmiga scrisse: “Vera Farmiga è convincente nel suo essere madre-amante platonica (per ora?)”. Evidentemente qualcosa di strano si vedeva già all’epoca, nel rapporto tra madre e figlio, ma trovo che sia solo con la seconda stagione – in cui la devianza di Norman viene riconosciuta non solo dallo spettatore, ma anche dal personaggio stesso – che questa relazione malata e disfunzionale raggiunge il vero stato dell’arte.
Tutto Bates Motel, a conti fatti, racconta del passaggio di Norman da timido studentello mammone a serial killer tra i più famosi della storia del’audiovisivo. Questa trasformazione ha in sé delle componenti genetiche, ma è anche figlia di fortissimi traumi subiti dal protagonista in giovane età, quando era costretto a vedere il padre che abusava in ogni modo della madre. Una donna verso la quale, poi, avrebbe sviluppato un affetto morboso e totalizzante, in uno schema edipico quanto mai esplicito (Norman uccide suo padre e ama sua madre, in pratica Freud si commuove).
Ecco allora che, al momento di entrare nel mondo narrativo di Bates Motel, questo rapporto esclusivo diventa fondamentale nel definire la psicologia del personaggio ma anche nell’influenzare gli eventi stessi della storia (pensiamo solo agli sforzi fatti a più riprese da Norma per proteggere il figlio anche di fronte all’evidenza del Male).
Il season finale, in questo senso, è precisissimo. Non solo perché ormai c’è una versione immaginaria della madre che vive nella mente di Norman e lo aiuta a ingannare il poligrafo. Ma soprattutto perché la morbosità del rapporto tra madre e figlio raggiunge e forse supera il punto di non ritorno.
Se vi siete sentiti più volte a disagio, durante questa puntata, potete stare tranquilli: è normale ed è successo quasi a tutti. Tutte le scene con Norma e Norman (che detta così sembra un duo comico) sono costruite per trasmettere una evidente tensione sessuale, che sappiamo essere “sbagliata” ma che non possiamo non percepire proprio perché la messa in scena usa tutti gli strumenti classici per suggerire un possibile coito. Gli sguardi “troppo” ravvicinati, il ballo “troppo” lento, le parole “troppo” marcate (come quel “I love you” che in inglese più avere significati più o meno romantici, e che proprio per questo diventa ambiguo), le lacrime, le carezze. E infine, come una sorta di esplosione incestuosa, un bacio sulle labbra che i personaggi non percepiscono come sessualmente connotato, ma che lo spettatore invece vive con disagio proprio perché il come ci si è arrivati pone più di un dubbio.
Tutto questo non significa necessariamente che i due arriveranno a un rapporto di amore fisico dichiarato e consapevole. Ma serve a noi per provare il disagio e l’imbarazzo necessario e leggere il rapporto tra i due come eccessivo, sbagliato, deviato da traumi che lasciano ferite profonde e conducono a conseguenze imprevedibili (non dimentichiamo nemmeno che Norma ha subito più volte violenza dal fratello, e anzi ci ha fatto un figlio, cosa che evidentemente getta ulteriore benzina sul tema infuocato dell’incesto, a prescindere dal fatto che il rapporto allora fosse consenziente o meno).
Alla fine di questa seconda stagione, dunque, Bates Motel rimane una serie media nella maggior parte delle sue declinazioni, ma quasi sublime nella trattazione di quel singolo, importantissimo tema che tra fascinazione, repulsione e interesse psicologico tiene lo spettatore avvinto e giustifica in pieno i 40 e rotti minuti settimanali.
La chiusura, poi, è sul sorrisetto di un Norman ormai preda delle sue visioni audiovisive, in pieno accordo con l’immagine iconica del Norman Bates da grande schermo interpretato da Anthony Perkins.
E anche i cinefili sono contenti.