Mad Men: la settima e ultima stagione di Chiara Grizzaffi
Li avevamo lasciati male, li ritroviamo peggio: disagio esistenziale a palate nella settima stagione di Mad Men, proprio come piace a noi.
I fan di GoT li riconosci perché sono quelli che a una settimana dalla première della nuova stagione fischiettano la sigla sotto la doccia e iniziano a bramare vendette cruente contro chiunque, dal vicino che non fa la differenziata al collega con le Hogan. I fan di Mad Men sono quelli che, invece, quando si avvicina la nuova stagione iniziano ad avvertire un senso di fallimento esistenziale, di tragedia incombente, di horror vacui talmente forte che tutto quello che hanno voglia di fare tornati a casa la sera è assaltare il mobiletto degli alcolici (prima che iniziasse Mad Men nemmeno ce l’avevano, un mobiletto degli alcolici). Per me che le amo entrambe il lunedì ormai è un casino, passo dall’entusiasmo più incontrollato alla consapevolezza dell’inutilità dell’esistenza nel giro di una serata, ma tant’è: aprile è il mese più bello dell’anno, poco importa se finirò per assumere psicofarmaci prima dell’estate.
ATTENZIONE! Da qui in poi spoiler moderati del primo episodio!
Eppure, proprio in vista della chiusura definitiva di Mad Men, qualcosa è cambiato nelle dinamiche narrative di questa première. La prima puntata di ogni stagione, infatti, di solito era ambientata a una certa distanza temporale rispetto al finale della precedente. Poteva trattarsi di alcuni mesi o di diversi anni, ma il distacco si avvertiva comunque in maniera abbastanza netta: Mad Men si basa su una serie di alti e bassi esistenziali dei suoi protagonisti, quasi tutti inesorabilmente coinvolti in una spirale discendente inframmezzata da momenti di apparente ripresa. Di solito, a un finale cupo seguiva un inizio per cui il trascorrere del tempo aveva contribuito ad ammortizzare i colpi, a prendere le distanze, addirittura a ribaltare almeno in apparenza (è il caso della 5 stagione, arrivata dopo un anno di pausa) la situazione precedente. C’è da dire che Weiner ci ha provato, quest’anno, a farci gasare in vista dell’ultima stagione: i teaser poster e i promo sono un tripudio di abiti anni Settanta, di colori flou, di minigonne inguinali. Ma ormai, caro Matthew, non ci freghi più: ce la ricordiamo tutti quella stagione iniziata a zou bisou bisou e giacche a quadrettoni e finita con Lane Price penzoloni in ufficio, per dire.
In questo caso, invece, l’azione riprende a un paio di mesi da dove si era interrotta, e malgrado lo spostamento di alcuni dei personaggi sulla costa californiana poco, o nulla, è cambiato. Don è sempre in aspettativa forzata dal lavoro, e il suo matrimonio con Megan sta naufragando miseramente. In una serie che non ha mai avuto bisogno di troppe parole per mostrare le dinamiche relazionali tra i personaggi, la crisi fra i due si traduce in un’intesa sessuale e in un’intimità domestica ormai persa: entrambi sembrano impacciati, Megan è infastidita dalla presenza di Don in casa sua almeno quanto lui si sente fuori posto. Lavorativamente, la situazione non è migliore: Don è costretto a lavorare “sotto copertura” regalando le sue idee migliori all’infiltrato Freddy Rumsen, ma chi lo ha rimpiazzato all’interno dell’agenzia, Lou, non sembra apprezzarle.
Anche un altro membro della vecchia guardia, Roger, prosegue la sua personale deriva caratterizzata dal disinteresse per il mondo degli affari – ormai inesorabilmente diverso da quello che conosceva e dominava con disinvoltura – e dalle ardite sperimentazioni sessuali, finalizzate a nascondere il vuoto affettivo che lo circonda.
Ma le nuove leve non se la passano certo meglio: Peggy, che sembrava pronta a prendere il posto di Don, si ritrova in realtà in balia di un nuovo superiore molto poco interessato alle idee che lei propone; il povero Ken Cosgrove insieme all’occhio ha perso anche il suo lato più bonario, trasformandosi in un responsabile nevrotico che, nonostante abbia un evidente bisogno di delegare alcuni dei suoi compiti, rifiuta di riconoscere a Joan più del ruolo di supersegretaria.
Il mondo di Mad Men è e rimane un mondo in continua evoluzione, attraversato dai grandi cambiamenti storici, ma i suoi personaggi sono destinati a non essere parte attiva del cambiamento, ma a venirne sempre, in qualche modo, travolti. Il fatto che non ci si trovi di fronte a twist narrativi di un certo rilievo, e che l’esordio si riallacci in modo così netto al finale precedente segnala che la settima è l’ultima stagione della serie: Weiner preferisce scendere dalle montagne russe, e farci capire che, nel bene e nel male, è giunto per i suoi personaggi il momento di fare i conti una volta per tutte con sé stessi, risalendo finalmente la china o lasciandosi andare giù. Sarà per questo che il primo episodio, più che mai, sembra solo prendere le misure, valutare le distanze prima dello slancio finale.
Manca un po’ di mordente, non si cerca di rilanciare a tutti i costi e di agganciare uno spettatore ormai definitivamente conquistato. Senza rinunciare, però, alla maestria della scrittura che ha reso grande la serie, alla costruzione attenta di momenti importanti, che dicono sempre più di quanto non appaia: è il caso dello splendido monologo di apertura di Freddy, in cui riecheggiano le migliori campagne di Don (che infatti, scopriamo alla fine, è il ghost writer); dell’apparizione di Pete, momento autenticamente esilarante; della malinconica fragilità di Megan, che una teoria del complotto vuole incarni Sharon Tate; del pianto di Peggy, sempre lì lì per farcela a ottenere ciò che desidera e sempre destinata a ricominciare da capo.
Piccole chicche disseminate qua e là che ci danno fiducia, considerato che la settima stagione è divisa in due parti (la seconda andrà in onda nel 2015): c’è ancora spazio per sorprese e scossoni anche significativi, e siamo convinti che il congedo dai pubblicitari di Madison Avenue sarà di quelli che non dimenticheremo facilmente.