House of Cards – La seconda stagione tra divinità e poveri cristi di Sandro Giorello
Alti e bassi della seconda stagione di House of Cards
[SPOILER ALERT: LEGGETE SOLO SE AVETE VISTO LA SECONDA STAGIONE DI HOUSE OF CARDS]
Vi spoilero solo questo della seconda stagione di House of Cards: un threesome tra il vice presidente degli stati uniti d’America, Frank Underwood, sua moglie Claire e la guardia del corpo Edward Meechum. Lei lecca la mano a lui dopo averlo fatto ubriacare, il vice presidente resta a guardare per un attimo, poi lo bacia. La scena è inserita quasi totalmente a caso, nella mia testa l’ho posizionata come il momento what the fuck di questa seconda serie, per un po’ ho persino valutato l’ipotesi che rappresentasse un sogno. L’idea di una possibile omosessualità di Frank Underwood, però, è interessante. Era già trapelato nella prima stagione, capitolo 8, c’è questa serata di gala a cui Underwood va per ricevere un riconoscimento dal Sentinel, college Militare della South Carolina dove è cresciuto, e alla fine di una notte di baldoria si intuisce che tra lui e un altro cadetto c’era stato un qualcosa di più di una semplice amicizia.
E la cosa mi è piaciuta, vuol dire che oltre al predatore pronto a saltare alla giugulare di chiunque gli intralci la strada, c’è ancora tutto un altro mondo più profondo, intimo e con cui il predatore in qualche modo è venuto a patti. E un predatore che conosce e dirige i propri istinti è decisamente più pericoloso di un pazzo che agisce alla cieca. Nella seconda stagione c’è un’altra scena simile: lui sta guardando un porno e Meechum lo scopre per sbaglio. Congedata la guardia, Underwood sale in camera, lo dice a Claire e ci ridono sopra. Tra i due tutto è conosciuto, chiaro, accettato, che sia un porno o scoparsi una giornalista, sono comunque pulsioni conosciute, gestibili, e governabili. Frank Underwood è il potere, e il potere bisogna saperlo controllare.
Il punto è questo. Voi potete vedere la seconda stagione di House Of Cards divisa in due: da una parte c’è Frank Underwood, e poi ci sono gli altri. Partiamo da Underwood: l’anno scorso la storia era dedicata alla sua arrampicata, inizia subito nel capitolo 1, dove gli comunicano che il posto di Segretario di stato viene dato ad un altro, urge trovare un piano alternativo, e allora struttura un gioco di scacchi per mettere fuori combattimento tutti fino a farsi eleggere vice presidente. Quest’anno Underwood deve mantenere la sua posizione, i primi capitoli ribadiscono che chiunque possa essere un pericolo per Underwood sarà tolto di mezzo. Vanno via tutti, resta un solo nemico: Raymond Tusk, lobbista internazionale e da sempre consigliere del Presidente degli Stati d’Uniti d’America. Tusk e Underwood se ne danno di santa ragione, come finisce la potete anche intuire ma non accadrà in modo indolore, e sicuramente non sarà una vittoria facile. In mezzo ai due c’è il Presidente, che è disegnato come uno stupidotto insicuro e più che facilmente manipolabile.
Ecco, un presidente così è poco credibile. Poi l’altro giorno sono incappato in queste gif. Più che altro c’è da constatare che anche il Presidente di Scandal non viene dipinto tanto meglio, e che sono ormai lontane le legislature del Presidente Bartlet in West Wing dove un uomo, per di più con un principio di sclerosi multipla, si caricava sulle spalle un paese intero. Da tempo le serie TV americane sfruttano la possibilità di raccontare la politica nei suoi risvolti più cinici e scandalistici, che sia il PRISM – e il relativo datagate, praticamente citato da tutte le serie tv lo scorso anno – le relazioni extraconiugali, i rapporti con i servizi segreti, fino a svelare i normali giochi di scambio e gli ingranaggi di una macchina enorme come può essere quella del governo dello stato più potente ed influente del mondo libero; ci può stare l’idea che sia troppo per un uomo solo, è facile leggerci un senso di disincanto. A prescindere da questo, il Presidente di House of Cards è uno scemotto. E lo è perchè, secondo House Of Cards, ci sono solo due persone al mondo capaci di avere il potere: Frank Underwood e Raymond Tusk. Sono due grandi dei, padri severi da non sfidare perchè non puoi immaginare come possano scaricare la loro incazzatura quando si incazzano. Gli altri non sono che formiche al loro confronto. E qui arriviamo alla seconda parte che vi avevo anticipato.
Gli Altri: nella prima stagione la storia della scalata di Frank Underwood si intrecciava con quella del deputato Peter Russo – c’era la sua carriera politica, la sua riabilitazione da alcolista la corsa a governatore per la Pennsylvania, e la nuova ricaduta. C’era la storia con la giornalista Zoe Barnes, c’era il disegno di legge sull’istruzione da far passare, ecc ecc. Ora, nella seconda stagione, oltre al grosso duello Underwood-Tusk, restano solo i poveri cristi che ne devono patire le conseguenze. Ci sono personaggi visti da molto vicino, la cui vita è una vita normale, si innamorano, lavorano praticamente tutta la giornata e in più devono reggere il carico di questo latente rischio di fallire deludendo le due divinità, che nel frattempo stanno sconvolgendo le economie mondiali, solo per mandarsi al tappeto. Questa è l’unica cosa che mi piace davvero della seconda stagione di House of Cards: il lobbista Remy Danton che si innamora del deputato Jacqueline Sharp, Doug Stamper che si innamora di Rachel, la call girl usata per incastrare Russo l’anno scorso, che qui è costretta ad una nuova vita in esilio senza la possibilità in pratica di parlare con nessuno e che, poi, si innamora di un’altra donna. C’è l’hacker che riesce ad accedere al completo database della più grande compagnia di telefoni americana e che, poi, viene beccato e messo a libro paga dell’FBI. Ci sono Freddy Hayes, le sue costolette, suo figlio, e il negozio che verrà inglobato da una multinazionale. Sono persone che portano dei grossi pesi sulle spalle e a cui si riserva solo la possibilità di obbedire con piccoli cenni della testa. In questo tipo di tensione si scoprono delle sfumature molto belle, descritte nel dettaglio. Prima, nella prima stagione, era tutto un rise and fall, uomini e donne che cercavano di rialzarsi e muoversi verso una crescita personale. Ora invece avete un ritratto – più diretto e definito – del gioco politico e di come influenzi, sostanzialmente, le vite della gente normale.
Quasi verrebbe da dire che è quella la vera storia di House Of Cards. E lo so che non è quella, lo so che gli americani si abbonano a Netflix solo per sapere quale sarà la prossima mossa di Frank Underwood; per questo vi dico che quest’anno la storia è debole. Perché per tutti i 13 episodi noi sappiamo già chi è il vincitore, quasi non lo spaventa nulla. I pochi momenti dove è messo in crisi, Underwood reagisce sempre con una calma che non è credibile. E dopo cinque stagioni di Damages ho smesso di credere che un cattivo possa rimanere imperturbabile per anni e anni senza scadere nel ridicolo. House of Cards stupisce e convince per la regia, per la bravura degli attori – non solo Kevin Spacey ma anche Gerald McRaney, Mahershala Ali, Michael Kelly – per certi dettagli fulminanti, imprevisti e collocati con dovizia all’interno della sceneggiatura. Ruba molte skills al cinema e le adatta ad una serie TV, carica ogni puntata con pause, inquadrature, momenti di quiete che continuano lenti, arriva Tusk e spezza il collo ad un colibrì perchè al telefono Underwood l’ha fatto innervosire. Ma ci sono momenti meno credibili – il threesome è in cima alla lista – e la storia è debole. Vediamo la terza stagione come va.