Sherlock His Last Vow – Finale col botto, e ancora diverso di Diego Castelli
Per me, il miglior episodio di sempre
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ATTENZIONE! PIENO DI SPOILER SULLA 3X03 DI SHERLOCK! MA PIENO EH!
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Immagino che se una delle (non molte) persone a cui non frega nulla di Sherlock dovesse capitare su questa pagina direbbe: “ma ancora sta serie?!?!”
Essì, ancora, perché i maledetti inglesi ci deliziano il palato con uno dei migliori prodotti degli ultimi anni, ma poi ce ne danno solo 3 puntate all’anno. Voglio dire, bisogna essere stronzi forte. Eppure noi, come certe fanciulle da teen drama che mai la darebbero al personaggio più buono ed emotivamente stabile, ma solo al teppista arrogante e violento, rimaniamo comunque a pendere dalle loro labbra britanniche, riempiendo i siti e i forum con messaggi d’amore e lunghe disquisizioni sul fatto che lo Sherlock comedy di quest’anno sia meglio o peggio del solito, o semplicemente diverso.
Perché che sia diverso mi pare sotto gli occhi di tutti. Il Villa l’ha spiegato l’altro giorno, parlando di una virata verso la comedy che ha alzato a manetta il livello di gigioneria e abbassato, o quanto meno sfumato, la parte di indagine vera e propria.
Piaccia o non piaccia questa impostazione (a me piace, ma capisco anche una certa diffidenza di chi avrebbe voluto un Holmes meno cabarettista e più “normale”, ammesso che questo sia un aggettivo accettabile…), il terzo episodio è riuscito a creare una sfumatura ancora nuova.
Lo dico: secondo me “His Last Vow” è il miglior episodio di Sherlock finora. Di sempre, intendo.
La nuova componente comedy è ancora presente, ma è stata ridotta a livelli più digeribili, o comunque meno provocatori. Le indagini, in compenso, sono rimaste di nuovo fuori dalla porta, almeno nel senso classico del “caso” in cui c’è un delitto da esaminare e un colpevole da trovare. Qui del colpevole abbiamo nome e cognome, Charles Augustus Magnussen, e la missione è chiara: sconfiggere un uomo potentissimo e subdolissimo che tiene in scacco praticamente l’intero Occidente. Una cosa più da supereroe che da detective.
Io non sono un grande esperto dello Sherlock letterario. Neanche un “piccolo” esperto, in verità. Ma se ricordo correttamente dagli studi scolastici, l’interesse per le storie di Sherlock Holmes non era tanto legato a “chi ha fatto cosa”, ma più che altro al come Sherlock ci sarebbe arrivato, usando un’intelligenza e un acume che noi umani non riusciremmo a immaginarci.
In questo senso, “His Last Vow” prende questo concetto e lo porta all’ennesima potenza, anche oltre Moriarty: più che un caso investigativo è uno scontro di menti, una lotta all’ultimo neurone tra due geni totali, gente sostanzialmente stra-ordinaria (pensate anche solo alla visualizzazione dei processi mentali di Magnussen, che lo fanno sembrare una specie di Robocop) che noi possiamo solo osservare con la boccuccia aperta, ammirati e un po’ invidiosi.
Chiaro allora che poi arrivano mille sorprese (ma mille), e chiaro anche che alcune di quelle sorprese sono poco spiegate. Si veda ad esempio la sequenza in cui Sherlock smaschera Mary di fronte a Watson: qualcuno potrebbe voler pretendere qualche spiegazione in più da quella scena (specie sul come si è arrivati a quel preciso istante, con i personaggi disposti in quel modo ecc), ma conta più lo stupore, la messa in scena della mente superiore di Sherlock, che assurge alla divinità: non ci interessa che sia tutto spiegato, ci crediamo e basta. A tanto è arrivata la credibilità di questo personaggio, che in soli nove episodi è per noi diventato totalmente e acriticamente infallibile.
Ed è qui, in questo turbinio di intelligenza, di fronte a un uomo che può fermare il tempo per pensare nel dettaglio a come cadere dopo essere stato colpito da una pallottola, che assume un valore fondamentale il fatto che Sherlock, alla fine di “His Last Vow”, venga sconfitto.
Perché questo succede: Sherlock perde, perché tutto ciò che fa per raggiungere il caveau di Magnussen si scontra con una verità tanto semplice quanto spiazzante: il caveau non esiste. In pratica, Sherlock fallisce perché non riesce a prevedere la possibilità di una mente persino superiore alla sua.
Poi possiamo argomentare che il finale è pienamente logico: non esiste un caveau di pietra e acciaio, ma esiste un caveau-cervello che Sherlock riesce effettivamente a distruggere. Missione compiuta.
Ma è un contentino, una scusa che usiamo per riuscire a dormire: la verità è che nel momento in cui Sherlock deve usare la vera violenza, l’omicidio, ha perso, perché passa da investigatore eccezionale a sicario qualunque.
Per questo alla fine sono quasi svuotato. Il ritorno di Moriarty, coincidente col dietrofront di Sherlock e la promessa della quarta stagione, è certamente un finale entusiasmante e fecondo, ma quasi mi spiace che Magnussen sia uscito di scena. Fosse anche solo una questione di attore – trovo Lars Mikkelsen molto più impattante del pur bravo Andrew Scott – è un personaggio che avrei voluto vedere all’opera per molto più tempo. Ora sta agli autori trovare un nuovo equilibrio, tra una vena comedy provata e riuscita (ma con Moriarty ancora tra i piedi verrà più difficile), un protagonista che ha provato la sconfitta, e degli spettatori che ormai si sono fatti la bocca buona e si aspettano sempre di più.
E così abbiamo finito. Tre settimane e via. S’è riso, s’è pianto, ci siamo stupiti, interrogati, qualcuno s’è pure incazzato. Ma rimane negli occhi la ricchezza di una serie che a raccontarla bene non ci riesci, devi solo vederla e dire “minchia!”
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