Almost Human – Il duello sul pilot della nuova serie tv di fantascienza di Marco Villa
Come ai vecchi tempi, ci si scanna su un pilot
Los Angeles, 2048. Ogni poliziotto viene affiancato da un robot nel lavoro di tutti i giorni. E’ così per tutti, anche per John Kennex (Karl Urban), detective che torna al lavoro dopo aver perso una gamba (e tutta la sua squadra) in un’imboscata. Accanto a lui c’è Dorian, robot capace di provare emozioni. Questa la trama di Almost Human, in onda su Fox dal 17 novembre, creatore J. H. Wyman (già showrunner di Fringe), nei credits anche JJ Prezzemolino Abrams. Qui sotto le motivazioni per cui a Marco Villa ha fatto proprio schifo e (in moltissime parole in più) il perché a Diego Castelli è piaciuto tantissimo.
Contro
di Marco Villa
Almost Human è una serie noiosa, piena di spiegoni e senza un elemento che sia nuovo. La storia dell’uomo e del non-umano che si guardano diffidenti e poi diventano amiconi è qualcosa che abbiamo visto giusto quel paio di volte e, di fronte ad argomenti già stravisti, si chiede una cosa sola: amici, metteteci un po’ del vostro, trovate un taglio, un’impostazione differente. Niente. Almost Human è una serie tv che sarebbe potuta essere contemporanea di Flash (con quello che poi sarebbe diventato il papà di Dawson) per profondità dello scavo psicologico e ritmo. La prima metà del pilot di Almost Human è fatta da uno spiegone dietro l’altro: notevole, in particolare, quello dell’amico dottore clandestino, che si mette a raccontare per filo e per segno, come nemmeno Archimede Pitagorico quando zio Paperone andava a ritirare le macchinone per le sue spedizioni. Poi certo, si possono buttare dentro i riferimenti a Blade Runner (che c’è) e Minority Report (basta fare cic ciac con le dita nell’aria, invece che su uno schermo, per portarsi a casa questa citazione), ma sono riferimenti appiccicati su qualcosa che proprio non gira. Il personaggio principale è uno che ti viene da odiare subito e ti viene presentato con il solito circo di comprimari scontati: il collega invidioso con il dente avvelenato, la bella&sveglia che cadrà ai suoi piedi, la capa materna che lo difende. Lui ovviamente è tutto tribolato dentro, con dei traumi grossi così e quindi fatica ad aprirsi. Con chi finisce per aprirsi? Esatto, proprio con l’amico robot che tanto robot non è, perché sotto sotto ha un cuore e un’anima. Minchia, Pinocchio. Con Geppetto che va dallo psicologo. Se poi vi aspettate invenzioni visive o una grande immaginazione, anche qui resterete delusi: tutta la grande pensata sul mondo nel 2048 si risolve a un paio di scaracchi volanti e a un trenino che viaggia appeso ai binari a testa in giù. Fine. Ricapitolando: concept già stravisto, protagonista insopportabile, zero idee di regia, sviluppo scontatissimo. Ah, e il cattivone del primo episodio è uguale al pelato dei Cavalli Marci. Così, per chiudere in allegria la disamina di questi inutili quarantadue minuti.
A favore
di Diego Castelli
Era da tempo che io e il Villa non eravamo così in disaccordo su una serie. Meno male, cominciavo a preoccuparmi!
Diciamo che per avere il mio intervento potreste prendere il commento del Villa e ribaltarlo completamente. Ma completamente eh!
Per amore di varietà partirò dal fondo: visivamente il pilot di Almost Human è una delle cose più toste e solide che abbiamo visto di recente. Effetti speciali che rivaleggiano col cinema, un sonoro splendido nelle scene d’azione, e soprattutto l’intelligenza di usare i citati effetti speciali con la parsimonia di chi sa di avere parecchie frecce al proprio arco, ma sa anche che non siamo sul grande schermo. Come dire, tanti tocchi di classe, ma niente baracconate piene di green screen tipo Once Upon a Time (e non parliamo di Wonderland, per carità). Poi il Villa ha ragione nel dire che non è un futuro incredibilmente “nuovo”, ma intanto in televisione se ne vede poca di roba così ben fatta.
Passiamo al secondo strato. Quello che il Villa vi racconta come già visto è semplicemente classico. E non c’è niente di male a costruire una struttura narrativa classica (il protagonista segnato dalla vita, la bella collega di cui innamorarsi, l’aiutante buffo e nerd) considerando che siamo in una serie di fantascienza, già di per sé facente parte di una minoranza televisiva che, per sopravvivere, ha bisogno di aggrapparsi a qualcosa che lo spettatore conosce e può relazionarsi, altrimenti non ti guarda nessuno. Chiaro che se poi fosse vero che il protagonista lo odi subito ecc, le belle intenzioni (o le intenzioni “prudenti”) andrebbero comunque a morire. Fortunatamente non è affatto vero, anzi: Urban si rivela praticamente perfetto per la sua parte sul filo del tamarro, così come la sua spalla, Michael Ealy, ha gli occhi cucciolosi pienamente degni del suo essere robot col cuoricino. Una coppia di sbirri anni Ottanta in un contesto che non c’entra nulla con gli anni Ottanta. Pollice su.
Ovviamente è sul loro rapporto che si fonda gran parte della storia, e anche qui c’è tanta bella roba. Attenzione, non sto dicendo che Almost Human presenti uno scenario tematico, valoriale e filosofico radicalmente innovativo. Anzi, è dichiaratamente debitore di tanta fantascienza vintage. Quello di cui parla è, in buona parte, ciò su cui la fantascienza studia e si interroga da decenni. Ma se il ragionamento viene fatto con criterio e attenzione, c’è ancora moltissimo da dire. Ed è proprio il caso di Almost Human, dove due personaggi entrambi “quasi umani” (uno è umano di nascita, ma monco nel fisico e nella mente, l’altro è androide, ma progettato per avvicinarsi il più possibile all’umanità) si muovono su toni spesso commediosi approfondendo però temi che suscitano tutt’altro che ilarità: su tutto campeggia la domanda “cosa significa essere umani?”, un quesito sì molto vecchio, ma ancora affascinante e fecondissimo di spunti, nonché perfettamente rappresentato da un androide progettato per essere come un uomo. Quel “progettato” è fondamentale, perché presuppone la possibilità, per la scienza, di ricreare a tavolino proprio una delle caratteristiche più impalpabili dell’umanità, l’emozione. Allo stesso tempo, però, proprio l’eccessiva umanità di Dorian è ciò che lo faceva definire “pazzo” quando era ancora in servizio, prima di essere mandato dal robivecchi.
Questo è solo uno dei molti temi, in una sceneggiatura in cui ogni dialogo è pensato per lasciare allo spettatore almeno una possibilità di andare oltre. E poco conta che già Asimov, grande padre e nume tutelare della fantascienza moderna, ragionasse su questi argomenti: nella sua storia la tv l’ha fatto poco e spesso male, dobbiamo essere solo contenti che questa (potenziale) profondità filosofica possa essere sviluppata da un meccanismo seriale che, se ben gestito, potrà condurci in terreni che cinema e romanzi sono spesso costretti a comprimere in spazi più limitati. E il Villa vi dice “Minchia, Pinocchio”, che è un po’ come guardare il pilot di Lost e dire “Minchia, Robinson Crusoe”…
E vi dico di più: ben venga che ci siano tanti spiegoni, perché questo non è un crime di cui sappiamo già tutte le premesse, è fantascienza, e ai fan della fantascienza piace anche che gli si raccontino i dettagli delle cose nuove che gli vengono messe davanti. Basta ovviamente che gli spiegoni non monopolizzino anche le puntate a venire.
La mia unica paura (tuttora presente) è proprio qui, sul futuro: che questo gran bel sugo si annacqui in una lunga sequela di episodi verticali e fin troppo polizieschi. Gli autori (JJ Abrams e J.H Wyman) dovrebbero farci ben sperare in questo senso, anche se sappiamo che, se vogliono, possono inventarsi mille altri modi per mandare in vacca una serie. Intanto, però, anche il secondo episodio ha retto bene, pur meno roboante del primo, tanto che il finale ha persino del commovente. Per quanto mi riguarda, Almost Human è per ora una delle migliori nuove serie dell’anno, non tanto per dove è ora, ma per dove sembra avere le gambe per arrivare.
Cazzo, era vero che avrei scritto molto di più. Questa non volevo lasciargliela vinta al Villa. Vabbe’ è andata così…