Dads – Vabbe’, ma tutto qui??? di Diego Castelli
La attendevo con gioia, e poi è una puttanata
C’erano tre motivi di interesse dietro a Dads, nuova sitcom di FOX. Tre motivi che erano bastati a inserirla tra le serie più attese di questo autunno.
La prima erano gli autori, Alec Sulkin e Wellesley Wild, già sceneggiatori di Family Guy e The Cleveland Show, insieme al produttore esecutivo Seth MacFarlane.
La seconda erano i protagonisti, Giovanni Ribisi e Seth Green, due che di solito fanno i comprimari ma rimanendo sempre nel cuore degli spettatori (da Friends a Buffy).
La terza erano i critici, che dopo aver visto in anteprima il pilot di Dads l’avevano accusato di essere razzista, misogino e volgare. tutti aggettivi che mi facevano solo venire più voglia di vederlo (più o meno sono le critiche che negli anni sono state rivolte a più riprese alla stessa Family Guy).
Ecco, fatta questa premessa a mo’ di difesa personale, mi scuso ufficialmente per aver alzato le vostre aspettative.
Pilot alla mano, Dads si rivela niente più che una brutta serie.
Prima di tutto puzza di vecchio: girata come trent’anni fa, coi tempi comici di trent’anni fa, con una presenza eccessiva e fastidiosa delle risate fuori campo, il cui volume sembra pensato appositamente per soffocare nel suono la mediocrità generale.
E poi è scritta male, non fa ridere. La base di molte delle gag è il rapporto tra i giovani Eli e Warner – cofondatori di una piccola ma gagliarda casa di produzione di videogiochi – e i rispettivi padri, due falliti sempre al verde che si trovano costretti a chiedere asilo alla prole. E’ un’idea che a seconda della bravura degli sceneggiatori può oscillare tra il “classico” e il “vecchio”. E qui siamo decisamente sull’artritico, con poche battute decenti (qualcuna c’è) immerse in un mare di banalità. Quando Seth Green si trova alle spalle del padre seduto sul divano, e si mette a mimare i vari modi in cui vorrebbe fargli del male, ci viene da pensare al nostro cuginetto o fratellino, quello un po’ minchione a cui piace fare il simpatico a tutti i costi alle riunioni di famiglia. Che magari ti strappa anche un sorriso, il cuginetto, ma non lo vorresti mai vedere protagonista di una sitcom.
Poi c’è il capitolo Razzismo & Co. Tutte le critiche piovute sullo show si rivelano una tempesta in un bicchiere d’acqua. Ma magari avesse battute così volgari o razziste da meritarsi qualche sano rimprovero! Invece qui abbiamo qualche stanca linea di dialogo a tema asiatici, ebrei, cancro al seno, con battutine che vorrebbero essere provocatorie e che invece suonano più come la cazzata sbrodolata di un amico ubriaco. Roba per cui magari puoi anche sorridere, ma che in fondo fa più che altro pena.
In questo la differenza con Family Guy è abissale: nel cartone di Seth MacFarlane abbiamo visto in questi anni molte battute cattivissime a sfondo religioso e razziale, ma sempre costruite con una tale intelligenza e creatività, sempre guidate da un profondo spirito di autoironia rivolta all’America più ignorante e bigotta, da farsi perdonare qualunque eccesso in nome di un divertimento assai più consapevole e raffinato di quanto la prima occhiata non faccia intendere.
Con Dads, invece, di cattiveria ce n’è poca, e di creatività ancora meno, e più che indignazione o stupore si prova una generica indifferenza.
Ho scritto poco più di tremila battute, circa la metà del mio standard, e non so più cosa dirvi. Forse perché non c’è niente altro da dire.
Allora occupiamo un po’ di spazio coi dati d’ascolto: Dads è partita piuttosto bene, messa all’inizio del nuovo comedy bloc di FOX del martedì (le altre tre serie sono Brooklyn 99, New Girl e The Mindy Project). Ma la rete ha fatto la furbata di partire una settimana prima rispetto alle principali concorrenti, e questa settimana le sue sitcom si troveranno addosso avversari molto più forti di qualche serie in replica. Diciamo che se Dads crollasse già al secondo episodio non mi stuperi affato, ecco.
Perché seguirla: boh, forse solo una smodata passione per i due attori protagonisti.
Perché mollarla: è una sitcom che non fa ridere, quindi ti chiedi “perché?”