Back in the Game – La sorpres(in)a che non ti aspetti di Diego Castelli
Una commedia che davamo già per morta, ma che forse ha qualcosa da dire
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Le sorprese, per definizione, non te le aspetti. Altrimenti che sorprese sono?
E oggi posso parlare di sorpresa, o almeno sorpresina, perché Back in the Game, nuova comedy di ABC, è assai meno peggio del previsto.
L’ultima volta ne aveva parlato il Villa in un post dedicato alle serie più a rischio epic fail. Vi copio quello che aveva scritto il mio socio perché è importante:
La storia è quella di una mamma ex campionessa di softball che, mollata la carriera causa maternità, si mette ad allenare una squadra di bambini scartati da altre squadrette. Mascotte della squadra è un simpatico cucciolo di cane tanto morbidoso, che si rotola per terra, si butta nell’acqua, si strizza e viene a dare la zampetta a tutti, con due occhioni così. Ok, la seconda parte me la sono inventata io, ma la trovo meno zuccherosa, diabetica e fastidiosa della trama vera e propria.
Si noti che non sono qui a dire al Villa “ah ah, fessacchiotto, hai toppato”, perché io avrei scritto la stessa identica cosa. Dai, una serie di ABC che parla di bambini che si mettono a giocare insieme a baseball dopo essere stati rifiutati da altre squadre, allenati da una ex giocatrice disillusa che probabilmente li farà vincere. Si sente puzza di miele anche al di qua dell’Atlantico.
E invece, guarda un po’, Back in the Game ha dei numeri proprio perché va contro le nostre aspettative: un po’ di miele c’è, ma in quantità moooolto ragionevoli, e il resto del pilot è una commedia assai più frizzante, idiota e persino cattiva di quanto avevamo previsto. In effetti qualche domanda dovevamo farcela alla vista dei creatori, Mark e Robb Cullen, il cui ultimo lavoro da sceneggiatori è quella gustosa trashata di Poliziotti Fuori con Bruce Willis.
Tutto gira intorno ai tre protagonisti: madre, figlio e nonno. E che nonno, visto che parliamo di un vecchio leone come James Caan che per l’occasione diventa un ex giocatore burbero e cinico che prova sincero fastidio per il fatto che la figlia vive a casa sua, causa disoccupazione.
Sono tre personaggi molto meno scontati e piatti di quanto temessimo, e nei 22 minuti di pilot riescono a regalare un buon numero di perle: in particolare il nonno, che esorta il nipote a picchiare i coetanei nei modi più fantasiosi, e il ragazzino, che per rispondere ai maltrattamenti di un bullo lo bacia sulle labbra in pubblico, così che quello esca di testa.
Ma anche i personaggi di contorno riescono a strappare più di una risata: ad esempio il padre del bullo nonché strafottente allenatore, che in qualunque altra serie farebbe ipotizzare una storia di amore-odio con la protagonista, se non fosse che qui è davvero un coglione totale dall’ego grosso come un’anguria. Ma discorso simile si può fare anche per gli altri bambini bistrattati: per questo tipo di racconti è normale la presenza di un gruppo di “sfigati”, ma che siano così giovani e così smaccatamente caricaturali (quello effemminato che balla in campo, quello indiano col turbante, i gemelli imbecilli ecc) aggiunge qualcosa in più a una serie che pensavano piena di sorrisi lacrimosi e battutine all’acqua di rose.
No no, qui c’è James Caan che punta il bambino più in carne e gli grida “quel bambino è grasso”. Oddio, mi rendo conto a scriverla così non è granché, ma nel pilot ci ho proprio riso sopra.
E quando un po’ di miele arriva, perché arriva, è comunque gestito con delicatezza, senza esagerare. Non c’è una voce fuori campo che dica “anche se i primi passi sono stati difficili, so che insieme riusciremo a ottenere grandi risultati perché la cosa importante è che ci vogliamo bene”. No, qui si lavora su piccoli dettagli e piccoli sguardi, e il leggero (e prevedibile) addolcimento finale del nonno non suona stonato rispetto alla senile cattiveria messa in campo fino a un momento prima.
Perché sia chiaro, non è che a noi dia fastidio la bontà in sé. Nemmeno al Villa, che fa il burbero ma in fondo è un tenerone anche lui. E’ che nel 2013 esagerare con lo zucchero significa creare storie di un irrealismo talmente palese da essere stucchevole, ed è qui che entra in gioco la noia e il comico involontario.
Back in the Game riesce a non fare questo errore, che era il primo e più grave che poteva commettere. Che possa diventare pienamente una “bella serie” è ancora da vedere, e ancora più incerta è la sua resa dal punto di vista degli ascolti. Ma almeno per me, per quel che posso contare, il rischio epic fail è scongiurato.
Perché seguirla: molto più fresca e divertente del previsto. Soprattutto, meno zuccherosa.
Perché mollarla: Ho detto che è meno zuccherosa del previsto, non che è Shameless, quindi regolatevi.
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