Top of the Lake – La serie tv firmata da Jane Campion di Chiara Grizzaffi
Una serie tv raggelata per affrontare la calura estiva
Estate, stagione di recuperoni. Qui su Serialminds avevamo lasciato indietro un pezzo da novanta, e le candidature agli Emmy ce l’hanno ricordato.
Si tratta di Top of the Lake, la miniserie in 7 puntate andata in onda su Sundance Channel, ennesimo prodotto d’autore perché ideato da Jane Campion, in collaborazione con Gerard Lee. Il bello dei progetti d’autore è che se il tizio/a in questione ti piace, e se non tradisce la sua poetica, vederlo alle prese con una narrazione più lunga e dilatata come quella seriale è una gioia vera e prolungata. E, tanto per chiarirlo subito, Top of the Lake è un progetto assolutamente in linea con la visione campioniana, a partire dal soggetto.
Ambientato in una cittadina della Nuova Zelanda, Top of the Lake racconta di Robin, una poliziotta che si trova suo malgrado coinvolta in una caso di violenza sessuale su una minore: una ragazzina di 12 anni, Tui, con molta probabilità è stata violentata ed è rimasta incinta, ma non sembra disposta a rivelare l’identità del padre del bambino. Come se non bastasse, Tui scompare nel nulla, e a Robin non resta che indagare sugli abitanti della sua cittadina d’origine, ritrovandosi anche a fare i conti con il suo passato traumatico.
La Campion regista, nel corso della sua carriera, ha sempre riflettuto sulla condizione femminile: che si tratti della Isabel di Ritratto di signora o di Ada in Lezioni di piano, i personaggi amati dalla regista sono donne i cui tentativi di indipendenza e di emancipazione sono spesso soffocati dalle convenzioni sociali, in particolare quelle di una società patriarcale. E anche in questo caso la protagonista, Robin, si ritrova a lottare per cercare la verità in un universo maschile violento e retrogrado. Per intenderci, la Nuova Zelanda dipinta da Top of the Lake somiglia all’universo di Game of Thrones: togliete tutti gli elementi fantasy e avrete la stessa struttura sociale brutale, che risponde solo alla legge del più forte e in cui la donna è mero oggetto di abuso e violenza.
Piuttosto rappresentativa, in questo senso, è la figura di Matt Mitcham, il padre di Tui. Capostipite di una famiglia allegramente dedita alla produzione e allo spaccio di droga, Matt appare da subito come un uomo capace delle peggiori nefandezze. Ed è, di fatto, una sorta di monarca assoluto di questa cittadina desolata: i suoi traffici loschi sono l’unica fonte di sostentamento per molti degli abitanti. Nel suo “regno”, l’arrivo di Robin e le sue indagini sono visti come un’invasione: è ricorrente la rappresentazione della protagonista come oggetto di sguardi che, quando non preludono alla molestia sessuale, manifestano diffidenza o la volontà di esercitare il controllo anche su di lei. Ma l’abilità della Campion risiede nella capacità di sfaccettare i suoi personaggi, e di creare situazioni complesse, mai analizzabili. La natura, elemento centrale del racconto, è sia ostile che un riparo per chi rifiuta la cosiddetta civiltà: non a caso, è in una tenuta sconfinata chiamata Paradise – metafora del Paradiso Terrestre – che trovano rifugio le donne in cerca si se stesse o in fuga da un passato violento. Questo gruppo di donne è guidato da GJ – interpretata da una vecchia conoscenza della Campion, Holly Hunter -, sorta di guru spirituale che rifiuta, però, di dare qualunque risposta rivelatoria e che sembra avere un atteggiamento piuttosto scettico verso le sue stesse adepte e la loro devozione. La questione del Paradise e delle sue abitanti, osteggiate da Mitcham che vorrebbe quelle terre per sé, non ha una ruolo decisivo nell’indagine di Robin, ma riveste piuttosto una funzione simbolica.
Insomma, Top of the Lake ha sì una trama principale che sembrerebbe designarne l’appartenenza al genere crime, ma in realtà se ne smarca abbastanza presto per riflettere su questioni come il contrasto fra natura e civiltà, fra un femminile legato alla vita e alla maternità, e un maschile brutale, violento, e rifiuta qualsiasi interpretazione univoca: basti guardare come vengono trattate le “femministe” di GJ. Anche le modalità di racconto sono più vicine a certo cinema d’autore che non alle serie crime tradizionali: le digressioni narrative sono numerose, e non aspettatevi di arrivare alla fine con tutte le risposte, perché molte questioni rimarranno aperte. Voglio evitare spoiler troppo massicci, ma vi dico solo che, se Matt Mitcham appare come uno spietato predatore, non è forse la sua violenza, fin troppo esibita, quella da temere davvero.
Due parole se le meriterebbe anche l’attrice principale, Elizabeth Moss, la Peggy Olson di Mad Men: a quanto pare, la nostra si sta specializzando in ruoli femminili complessi, che hanno molto a che fare con questioni identitarie e di emancipazione. Direi che entrambe le sue nomination agli Emmy sono più che meritate: la Moss è, anche qui, assolutamente credibile.
Fossi in voi, non mi farei intimidire dalla forte impronta autoriale della serie e mi ci butterei a capofitto: si sa che non c’è niente di meglio di una bella atmosfera raggelata per superare la calura estiva, e poi gli orrendi crimini sono un must sotto l’ombrellone. Se poi tutto questo non vi basta, vi dico solo Lucy Lawless. Fate voi.