Siberia – Il reality finto che sembra troppo vero di Diego Castelli
I rischi del “né carne né pesce”
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Ho aspettato un po’ prima di scrivere di Siberia, perché il pilot non era sufficiente a capire dove volesse andare a parare. O, per dirla più onestamente, avevo paura di scrivere minchiate subito smentite dal secondo episodio.
Parliamo della nuova serie estiva di NBC, un finto reality show in cui sedici poveri cristi vengono abbandonati a loro stessi (più o meno) nella fredda Siberia, senza gli usuali giochini tipo televoto e collegamenti con lo studio in diretta: semplicemente, chi arriva alla fine dell’inverno senza ritirarsi vince il premio in denaro, eventualmente da spartire con gli altri sopravvissuti. E non uso la parola “sopravvissuti” a caso.
La prima cosa che colpisce della serie è proprio la struttura da reality. Tutto il telefilm è costruito per simulare le normali tecniche visive del reality show: riprese pensate per suggerire la presenza degli operatori, riferimenti espliciti dei personaggi al loro essere concorrenti di uno show televisivo, presenza di un inviato delle produzione che spiega le cose ai concorrenti, periodiche sedute di “confessionale” in cui i vari partecipanti raccontano agli spettatori a casa i loro pensieri, le loro difficoltà ecc. Insomma, c’è proprio tutto quello che ci si aspetta da un reality show – tranne il televoto e Simona Ventura – e capitandoci sopra per caso non sarebbe affatto difficile scambiare Siberia per l’ennesimo clone di Survivor o simili.
A questo punto si pone una domanda: perché mai uno dovrebbe produrre un telefilm del genere? Perché mai dovresti fare un finto reality, col rischio di inimicarti sia quelli che i reality li seguono, sia i serialminder che li schivano con aperto disprezzo?
Se l’operazione ha un suo valore semiotico, diciamo un suo interesse accademico, allo stesso tempo usa le tecniche narrative del reality tradendone però la regola di base, cioè il fatto che i partecipanti siano persone vere che provano emozioni vere. Inutile dire che qui si potrebbe aprire una lunga parentesi sulla reale “veridicità” dei reality show, a più riprese accusati, nel corso degli anni, di essere più o meno pilotati e recitati. Ma in fondo si tratta di sfumature: se il pubblico crede che quello che vede è la verità, l’effetto emotivo prodotto è lo stesso, che lo sia o meno.
Invece con Siberia lo sappiamo da subito che non stiamo assistendo ad eventi reali, quindi dove sarebbe l’interesse? La risposta in realtà potrebbe essere abbastanza banale: costruendo una serie che è un reality per finta, posso far succedere cose che in un reality vero non sarebbero mai permesse o non potrebbero mai accadere. Nello specifico, eventi soprannaturali e morte dei protagonisti. E chi di noi non ha mai augurato qualche accidente ai tipici imbecilli dei reality italiani?
Questo è il plus che Siberia cerca di dare al racconto: al normale reality, fatto anche di intrighi e sotterfugi e meschinate, si aggiunge la componente del pericolo tanto misterioso quanto concreto, capace di realizzare anche le fantasie più perverse e cattive del pubblico a casa.
In un certo senso siamo nello stesso campo dei The Blair Witch Project e compagnia bella, filone cinematografico e in parte televisivo (l’anno scorso cerca The River), in cui le modalità comunicative dei video amatoriali vengono prestate a storie di tensione che da quelle stesse modalità ricavano un surplus di immedesimazione dello spettatore. Qui dovrebbe essere lo stesso: ti faccio vedere un reality, che nel tuo cervello fa scattare determinate reazioni ormai automatiche, e però lo farcisco di sorprese che poco hanno a che vedere con i reality normali, così da mandarti fuori di testa.
Questo sembra essere l’obiettivo di Siberia, la sua intenzione sulla carta. E la cura nella realizzazione visiva del prodotto è ineccepibile, non solo nella gestione delle riprese, ma anche nella recitazione degli attori, tutti molto bravi a sembrare persone comuni catapultati nello strano mondo dei reality.
Dove però Siberia fallisce, almeno in parte, è nel portare questo metadiscorso alle estreme conseguenze. Per funzionare davvero, per essere realmente impattante, Siberia avrebbe dovuto esagerare fin da subito, e pure tanto. Invece, paradossalmente, Siberia è troppo “vera”. Il primo accenno concreto al pericolo e al soprannaturale arriva solo alla fine del pilot, e anche nei due episodi successivi, per quanto la tensione sia più palpabile, il racconto è troppo ancorato alle dinamiche più spicciole dei reality comuni. Il risultato, abbastanza curioso, è che Siberia rimane a metà strada: è troppo simile a un vero reality, di cui però non possiede la componente fondamentale, e non riesce ad aggiungerci abbastanza in termini di fiction.
L’operazione, così concepita, non è stata ben digerita dal pubblico americano: pochi gli spettatori del pilot, e ancora meno quelli delle puntate successive. E non è difficile pensare che proprio questo equivoco di fondo tra reality e non reality sia risultato troppo spiazzante e infine perdente in fase di zapping. Magari avrebbe avuto più fortuna su una cable.
In parte è anche un peccato: a ben guardare, la componente thriller di Siberia funziona, e dopo aver visto tre episodi ho ancora voglia di vedere cosa succederà nel prossimo, cosa che non accade con tutti i telefilm nemmeno a me che sono di bocca buona. Spiace però che una serie con un concept così ardito non sia riuscita (almeno per ora) a trovare una chiave per renderlo davvero imperdibile.
Perché seguirla: l’esperimento televisivo è interessante, siamo comunque di fronte a una proposta diversa dal solito, e la tensione c’è.
Perché mollarla: al di là dei ragionamenti più cinici (probabilmente non arriva alla seconda stagione) rimane la netta impressione di trovarsi di fronte a un buona idea sfruttata poco e/o male.