Camp – Ormoni al campo estivo di Diego Castelli
D’altronde senza internet non puoi che cercare di accoppiarti
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Non ho mai avuto particolare simpatia per i campi estivi, ancora meno per quella variante italico-vaticana che è l'”oratorio feriale”. Un nome che puzza di campo di concentramento, di attività ludiche concesse solo in cambio di preghiere.
So che molti di voi ci sono andati e si sono pure divertiti, e non ho nulla da ridire su questo. Ma siccome l’oratorio che frequentavo (pochissimo) quando ero bambino divideva tutti i suoi ospiti nelle due categorie “bulli” e “vittime di bullismo”, capirete che non sono mai stato un fan di questi assembramenti coatti di giovani, parcheggiati al sole in attesa che le scuole potessero nuovamente occupare la loro traboccante energia.
E’ con questo ottimistico approccio che mi avvicino a Camp, la nuova serie di NBC ambientata, guarda caso, nel Little Otter Family Camp, letteralmente “Il campo per famiglie della piccola lontra”. Una specie di oasi nei boschi con bungalow, laghetto, campi da basket ecc, in cui le famiglie vanno a passare l’estate con i figli piccoli, in un’atmosfera di gioioso cazzeggio. La baracca è gestita da Mackenzie Granger (Rachel Griffiths, reduce da Brothers & Sisters), che da quest’anno deve occuparsi del campo tutta da sola perché il marito l’ha lasciata per una ventenne dell’Est Europa. Ad aiutarla, oltre al figlio adolescente, ci sono alcuni ragazzi che raccolgono qualche soldo estivo facendo gli animatori e in generale dando una mano nella gestione delle varie attività.
Come potrete bene immaginare, l’attività del campo non è un’attrattiva di per sé. Ok, il posto è bellissimo e ci sono pure problemi economici, così che Mac rischia di dover vendere e noi ci possiamo preoccupare per lei. Però voglio dire, anche chissene.
Ma si sa che questo tipo di ambientazioni, piene di gggiovani impregnati di sogni e speranze, è terreno fertilissimo per seminare alcune tra le dinamiche più classiche della serialità. Per farlo, gli sceneggiatori devono seguire due semplicissime regole: rendere praticamente tutti i protagonisti dei fighi/e da paura (ma anche senza esagerare, basta eliminare i “brutti”), e rendere l’intero campo una potenziale orgia a cielo aperto.
Ecco allora che la magia è presto fatta, ed è persino dichiarata all’inizio: il primo dei nuovi assistenti di Mac – un ragazzo solitario, appassionato di documentari e pesantamente infastidito dal fatto che nel campo non ci sia internet – si congeda dal padre assicurandolo di non trovarsi in un tv movie zuccheroso in cui un’estate al campo estivo cambierà il suo modo di percepire la realtà o di rapportarsi col mondo. Bene, bravo, bis. Poi scende dall’auto, incontra lo sguardo della strafiga-coi-problemi-e-quindi-simpatica-e-disposta-ad-andare-con-uno-che-normalmente-terrebbe-a-distanza-con-un-bastone, e blam, tutti i buoni propositi vanno a farsi benedire e, malgrado i suoi sforzi, questa sarà la migliore estate della sua vita.
E’ una carica romantico-sessuale che pervade tutta l’allegra compagnia: Mac si è appena lasciata col marito e non vede l’ora di farsi ribaltare da uno che normalmente odia, il figlio (bel personaggio, peraltro) ha buttato giù persino una tabella di marcia per scandire il suo avvicinamento al sesso, uno degli animatori vorrebbe farsi la capa, altri due scopano come ricci ma lei conosce un altro e salterà addosso anche a lui, ecc ecc ecc.
Poi ci sono anche alcuni elementi diversi, come i già citati problemi economici o la rivalità col campo vicino, che ovviamente è più figo in ogni aspetto tranne il fatto che è popolato da una manica di stronzi. Ma anche questi sono solo un contorno, perché alla fine si torna sempre lì: Mac si rotola proprio col tizio che vorrebbe comprare il campo, e la sfida con i vicini serve più che altro a mettere le basi per ulteriori storie romantiche, secondo strutture ben conosciute come “mi difendi dai bulli anche se pesi venti chili, quindi comincio a pensare di dartela”, oppure “abbiamo litigato ma poi abbiamo fatto scorribande insieme contro i cattivi, quindi ci perdoniamo”.
Se fossimo in una serie inglese, o su HBO, il campo della piccola lontra diventerebbe presto Campo Clamidia, dove le uniche a divertirsi sarebbero le malattie veneree. Ma siamo su NBC, perciò Camp diventa un semplice teen drama estivo.
Ma quindi sto dicendo che è brutto? Ma no, io non sono mica l’uragano Villa, sono il porto sicuro dove ogni serie trova un piatto caldo e una coperta.
Per cui vi dico che Camp, creato da Liz Heldens (madre del mediocre Deception, ma anche tra le fondatrici di Friday Night Lights), ha i suoi bei momenti, perché la storie sono tante ma gestite con buon ritmo, perché i dialoghi riescono a trovare qualche gradevole evasione dallo stereotipo (non sempre, purtroppo) e perché gli interpreti sono quasi tutti all’altezza dell’atmosfera ora tenera, ora goliardica, ora sexy.
Insomma, si sono viste cose di peggiori (pure di molto), ma per evitare delusioni dovete sapere precisamente cosa state per vedere: è un teen drama puro e semplice, in cui i fremiti adolescenziali (nei ragazzi come negli adulti) sono praticamente l’unica cosa che conta, e dove l’irrealtà della situazione (una tale concentrazione di gnocca nei boschi io non l’ho mai vista) è strumento indispensabile alla creazione delle dinamiche tra i personaggi.
Poi oh, può ancora migliorare (la Heldens dovrebbe sapere come rendere un teen drama qualcosa di più di un teen drama), e soprattutto siamo stati tutti giovincelli, tutti abbiamo speso una o più estati cullandoci nella beata ingenuità delle prime cotte, è un attimo farsi tirare dentro dai moti scoperecci di questi quattro sbarbati…
Perché seguirla: siete abbastanza giovani da desiderare un’estate così, o l’avete già vissuta e ne avete una malcelata nostalgia.
Perché mollarla: è una serie su campo estivo, non è che potete aspettarvi che ne so, Lost o Mad Men…