2 Luglio 2013

House of Cards – Kevin Spacey e quello sguardo allo spettatore di mimmogianneri

Profonde analisi semiotiche di quel critico con le palle che è Mimmo Gianneri

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ATTENZIONE: UN PO’ DI SPOILER SULL’INTERA PRIMA STAGIONE (NEANCHE TROPPO EH…)

Le altissime aspettative con cui è stata accolta House of cards sono derivate principalmente dal suo essere la prima serie tv prodotta e distribuita da Netflix – con tutto ciò che ne consegue in termini di nuovi modelli di fruizione proposti (ne ha già detto Castelli) – e dalla sua ambizione “autoriale” manifestata dal gruppo di teste pensanti (e facenti) messo in campo, tra gli altri: David Fincher, produttore esecutivo e regista delle prime due puntate, Kevin Spacey, va beh, e Beau Willimon, showrunner della serie, nonché sceneggiatore del recente thriller politico Le idi di marzo.
House of Cards - SpaceyBene, siccome di queste cose se n’è ampiamente parlato, qui volevamo accennare a una questione riguardante le modalità con le quali una precisa scelta linguistica, quella dello sguardo in macchina, possa essere, oltre a un marchio di fabbrica stilistico, anche un utile strumento interpretativo.

Come noto, House of cards è il remake (ma Willimon preferisce parlare di reinvention) di una serie della BBC, di ambientazione quindi locale, del 1990. Nell’originale, oltre a un plot analogo anche se con meno personaggi, era già presente il citato sguardo in macchina con il quale il protagonista si rivolge allo spettatore. La rottura della “quarta parete” era uno stratagemma per replicare il classico soliloquio shakespeariano: i riferimenti culturali principali della serie sono infatti il Macbeth e, soprattutto, il Riccardo III.
Questo tipo di tradizione, per quanto “americanizzata”, è presente anche nella serie attuale; Spacey, del resto, conosce molto bene il Riccardo III, avendolo interpretato nel 2011 al teatro Old Vic di Londra (di cui è anche direttore artistico) in un adattamento per la regia di Sam Mendes… Mica casi. Ad ogni modo, anche nella versione attuale, Frank ogni tanto parla e ammicca allo spettatore, rendendolo una sorta di confidente e spesso consegnandogli delle massime memorabili (come la considerazione su Task nel dodicesimo episodio: “He doesn’t measure his wealth in private jets, House of Cards - Robin Wrightbut purchased souls“, tipo D’Alema, ma con jet al posto di yacht).

L’aspetto interessante di questa forma di interpellazione è che noi spettatori siamo coinvolti soltanto in alcuni momenti, mentre ignoriamo il disegno complessivo di Frank. Insomma, lungi dall’essere parte del gioco, anche noi siamo manipolati dal suo ingegno. L’ambiguità della nostra posizione all’interno delle vicende ci porta per un verso a tifare per lui, a essere partecipi della sua coolness (e del resto, come non esserne affascinati?), per l’altro a prenderne le distanze, mettendoci nei panni dei personaggi vittime inconsapevoli delle sue trame machiavelliche (come il povero Peter Russo). Credo sia questo il motivo per cui le frequenti interruzioni di Frank non risultano fastidiose, cioè non suonano come una pausa antipatica dello sviluppo narrativo. Un po’ come accadeva con la voice over del noir, la sua guida ci accompagna all’interno del racconto, passo per passo, e nel frattempo ci dà il polso del periodo storico, della corruzione, delle anime perse che navigano nell’inverno del nostro scontento…

Certo, a differenza di un tipico antieroe noir – e in modo analogo a tanti altri personaggi negativi della serialità più recente – Frank è un vincente. Sarà interessante allora leggere la seconda stagione (già messa in conto in fase di scrittura della prima) alla luce della domanda di fondo sintetizzata in quella telefonata di Doug a Frank mentre questi è uscito con la moglie per una corsa “liberatoria”: rimarrà il demiurgo delle vicende oppure, come spetterebbe a un antieroe emblema di un contesto socioculturale macero, diverrà egli stesso una marionetta, ovvero sarà destinato a pagare per ognuna delle sue colpe? Vedremo. Intanto, ci segniamo la programmazione dell’Old Vic.



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