Graceland – Una serie-cartolina dal creatore di White Collar di Diego Castelli
Gente che fa l’infiltrata e nel frattempo si diverte in spiaggia
Ogni tanto i produttori di Hollywood si stancano di girare a Los Angeles facendo finta di essere altrove, costringendo gli attori a vestirsi da eschimesi pur essendoci 35 gradi fuori dallo studio e ricostruendo in green screen le località più disparate. Ogni tanto decidono quindi di ambientare la loro nuova serie proprio lì, in California, giusto per sfruttare il sole, il mare e l’accrocchio cultural-razziale che la città degli angeli e dintorni sanno offrire.
Questo è già un buon punto di vista per valutare Graceland, la nuova serie crime di USA Network creata da Jeff Eastin (già padre di White Collar) che in larga parte è uno spot per le bellezze della California. Ma questa è giusto un’introduzione per mettere in guardia coloro che volessero avvicinarsi a questa serie pur sapendo che quest’anno, complice la crisi o le richieste di genitori e amici, saranno costretti a passare le vacanze in qualche affollatissimo buco sull’Adriatico.
Veniamo a noi. Un gruppo di agenti sotto copertura condivide una fighissima casa sulla spiaggia (chiamata affettuosamente “Graceland”) usandola come base per mille missioni a caccia di criminali, droga, merce rubata e quant’altro.
A rinforzare la squadra arriva il giovane Mike, neo-agente dell’FBI con tanta ambizione e voti perfetti, pronto a dare una mano e a compiere una delicata missione di cui solo lui è conoscenza.
Questo, in soldoni, il concept della serie, che come detto usa le storie criminose per scrivere una vicenda di amicizia, onore, intrighi, bellissimi paesaggi e una spruzzata di filosofia surf-poliziesca. Al di là dei singoli casi di puntata, l’interesse è chiaramente diretto verso la costruzione di precise dinamiche tra i vari personaggi, che rispondono a paradigmi abbastanza precisi: il giovane agente pieno di talento ma con tanto da imparare, il poliziotto navigato che forse nasconde dei segreti, la strappona affascinante che fa girare la testa un po’ a tutti, l’agente latino dalla vena scherzosa (che nella realtà si chiama Manny Montana, tipo cowboy da Carosello), e via dicendo.
La storia di base è abbastanza banale, se vogliamo, e il pilot non inizia nel migliore dei modi, con una quantità davvero eccessiva di espliciti spiegoni. In pratica il protagonista viene introdotto al mondo degli infiltrati come nel tutorial di un videogioco, con i personaggi secondari che gli spiegano per filo e per segno ogni singolo dettaglio di quello che si trova di fronte. Che noia, che barba, che barba, che noia.
Fortunatamente, una volta mandata a puttane la vecchia regola dello “show, don’t tell”, la serie riesce a rialzarsi con un buon ritmo, qualche discreta battuta di dialogo e, come detto, scenari davvero affascinanti.
Guardate che non è un elemento del tutto secondario: considerando che il genere è più che abusato, anche piccole variazioni “climatiche” possono essere decisive per attirare l’attenzione di uno spettatore che dopo tre o quattro ore di The Killing o The Fall ha anche voglia di staccare la spina con qualcosa di più leggero e dichiaratamente estivo. Tanto più che la firma di Easting potrebbe ingolosire quanti riconoscono in queste prime battute lo stesso meccanismo di White Collar: mettere in piedi uno show leggero ma bello da seguire (“bello” anche nel senso estetico) che in futuro può essere irrobustito con approfondimenti psicologici più forti e legami tra i personaggi che vadano ben oltre il singolo caso.
Detto ciò, e considerato che le prime due puntate me le sono viste abbastanza volentieri, non aspettatevi rivoluzioni: son sempre poliziotti che inseguono i cattivi, e che nel tempo libero si studiano a vicenda cercando di capire se non ci sia qualche segreto incoffessabile e pericoloso. Soprattutto, come spesso accade con le serie che raccontano di poliziotti infiltrati, il livello di ir-realismo raggiunge vette irritanti: sti tizi vivono tutti insieme in una casa in bella vista sulla spiaggia, hanno tante identità fittizie da poterci fare un album di figurine e se ne inventano di nuove ogni qual volta devono incontrare qualche spacciatore/ladro/mafioso. Si ritrovano abitualmente con squadre SWAT e alti papaveri della polizia, e quando un cattivo viene arrestato non hanno alcun problema a farsi riconoscere, per poi tornare alla loro vita di infiltrati, come se il delinquente di turno non avesse modo di comunicare all’esterno dalla prigione o non uscisse mai più di galera.
Attenzione: io non alcuna reale conoscenza di come funzioni il mondo dei poliziotti infiltrati, e quindi il problema del realismo non si pone in termini di “io so come funziona davvero”. Il problema è tutto interno alla serie, senza voler fare gli esperti a tutti i costi: la girandola di false identità e recite tamarre è talmente rapida da insospettire lo spettatore, che finisce col percepire troppo l’anima fittizia del racconto. E questo accadrebbe, paradossalmente, anche se Graceland fosse effettivamente la descrizione più verosimile del lavoro dell’infiltrato. Semplicemente, non ci sembra possibile che sia davvero così, e questo toglie parecchio pathos a tutta la faccenda.
Perché seguirla: è un intrattenimento senza pensieri, con un bel ritmo, bei paesaggi e begli attori.
Perché mollarla: la confezione è buona, ma sa tutto di già visto.
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