Addio Spartacus di Diego Castelli
Salutiamo a dovere il prode schiavo ribelle
ATTENZIONE! SPOILER TOTALI SUL FINALE DI SERIE.
Martirio.
Questa forse la parola migliore per descrivere il finale di Spartacus, la serie di Starz tanto amata quanto sfortunata. Uno show partito tre anni fa con molti elogi e grandi prospettive, ma segnato da una tragedia che ne ha probabilmente azzoppato le aspirazioni, togliendo slancio a un progetto potenzialmente molto più lungo.
Ma non è della morte di Andy Whitfield che bisogna parlare oggi. L’abbiamo già fatto altre volte e non è il caso di tornarci sopra.
Anche perché il finale merita, nel bene o nel male, la nostra piena attenzione. Dico “nel bene e nel male” perché questo episodio ha suscitato emozioni tanto forti quanto contrastanti. E dire che, libri di storia alla mano, era tutto già scritto: era ben difficile ipotizzare una sconfitta di Crasso e Cesare, così come era arduo pensare a un finale che non prevedesse la morte del protagonista, la cui leggendaria ribellione venne effettivamente soffocata nel sangue.
Eppure… eppure proprio la natura della serie, così esagerata, tamarra, sanguinolenta ed epica, era riuscita a metterci qualche dubbio. L’aderenza spesso molto leggera alla Storia ci aveva quasi fatto sperare in un finale ribaltato, come se fossimo in una sorta di universo parallelo di fringiana memoria. Il titolo stesso dell’ultimo episodio, “Victory”, sembrava suggerire cose che nessuno osava dire, ma che tutti desideravamo.
Invece, non solo gli autori sono stati rispettosi dei due elementi fondamentali dell’antica vicenda (la morte di Spartaco e il prossimo triumvirato tra Cesare, Pompeo e Crasso), ma hanno anche calcato la mano, cotruendo un episodio di grande drammaticità, dove lo spazio per la speranza e la gioia è dannatamente poco.
In pratica, tutti gli eroi che abbiamo imparato ad amare escono sconfitti, e pure brutalmente. Nevia raggiunge Crixus perdendo la vita in battaglia, Gannicus viene sopraffatto dalle forze romane e crocifisso sulla via Appia, Spartacus non riesce ad uccidere Crasso pur essendoci andato molto vicino e spira sulla via di fuga, giusto per essere seppellito tra i monti. Della vecchia guardia si salva solo Agron, che riesce a condurre parte dei ribelli oltre le montagne. Quel “parte dei ribelli” è importante, perché anche qui c’è di che essere tristi: a parte i desideri più irrealistici, la fine più ragionevole per la serie sembrava essere legata al sacrificio di Spartacus per la salvezza dei suoi compagni più deboli e indifesi. Invece, anche questi vengono dimezzati da un Pompeo qualunque che si trovava a passare di lì, causando un ultimo dolore al povero trace in punto di morte.
Insomma, un finale amaro, amarissimo, appena stemperato dalla consapevolezza che i nostri hanno trovato la fine che volevano, cioè da uomini liberi, combattendo per ciò in cui credevano. Ma è una riflessione esplicitata a parole, molto razionale, ma non troppo supportata dalla messa in scena: quello che effettivamente “vediamo” in questo episodio non è tanto la forza di Spartacus e l’epica della sua lotta per l’emancipazione. Vediamo invece la sofferenza sua e dei suoi amici, feriti, trafitti e bruciati più volte. Così come si era detto per la morte di Crixus, i personaggi non vengono eletti a leggenda in nome della loro forza morale e del loro coraggio, né vengono ripresi un’ultima volta mentre corrono contro il nemico nella luce del tramonto, lasciando allo spettatore il compito di dedurre (solo dedurre) la loro morte.
No, gli autori scelgono una strada diversa, e ci mostrano tutta la sofferenza di un manipolo di eroi ricoperti di fango e sangue, umiliati e messi in fuga, ma ancora capaci di rivolgere un ultimo pensiero alla loro missione, o alle persone amate.
E’ una scelta rischiosa, per una serie che per tre anni ha giocato sull’epica della vittora attraverso la forza degli ideali e l’abilità coquistata col sudore. Rischiosa perché lo spettatore di Spartacus fatica ad accettare una manifestazione così esplicita della sofferenza dei suoi beniamini. E vi dirò, non è tanto Spartacus il problema, quanto Gannicus, il prode guerriero donnaiolo e divertente che finisce circondato, sconfitto e appeso come un trofeo, costretto a morire mentre ricorda i bei giorni dell’arena.
E’ roba forte, roba tosta, che ti lascia sconfitto e dolorante sul tuo bel divano comodo. Ma probabilmente è anche la scelta giusta, quella che riesce a superare tre anni di tette al vento e computer grafica esageratissima, lasciando in bocca allo spettatore l’amaro sapore della realtà. Una realtà in cui i buoni e i meritevoli finiscono comunque schiacciati, e schiacciati male, da un nemico certamente ferito e provato, ma comunque troppo forte. Attraverso il sangue, il sudore e la sporcizia riusciamo a renderci veramente conto del sacrificio di questi uomini, molto più che non nel classico film hollywoodiano dove la cavalcata verso la morte è condita di frasi ad effetto e musiche orchestrali. Qui no, qui si muore per davvero.
In un ultimo slancio di inaspettato realismo, Spartacus trasforma la sua classica epica della guerra in un momento di riflessione su quello che la guerra è per davvero, un tragico evento in cui il coraggio e la rettitudine spesso non bastano, e dove anche gli eroi più grandi possono finire nella polvere.
L’unica vera vittoria, dunque, è quella che Agron racconta a Spartacus prima che muoia: è l’immortalità, la consapevolezza che proprio un sacrificio così straziante è l’unica via per rendere eterna la lotta di Spartacus, per tramandare alle generazioni future gli ideali che lo schiavo ribelle ha sostenuto fino all’ultimo respiro.
E infine, forse, per rendere immortale una serie tv che come il suo protagonista è stata colpita duramente, ma che riuscirà comunque a farsi ricordare per sempre.
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