11 Aprile 2013

Dancing On The Edge – Jazz e razzismo nella Londra anni trenta di Marco Villa

Il jazz non mi piace, ma Dancing On The Edge ha il suo perché

A me il jazz non piace. Lo conosco molto poco e il motivo è che riesco ad ascoltarlo per molto poco tempo. Non è solo noia, è che io ho bisogno della forma canzone, di una voce, di un ritornello. Magari storti, sgraziati e per nulla classici, ma almeno un abbozzo mi serve. Tutto quello che c’è dietro e intorno al jazz, invece, mi piace. Non che abbia approfondito più di tanto, ma le storie e il mood che avvolgevano i primi musicisti jazz mi ha sempre affascinato, al punto da trovare bellissimo un libro come New Thing di Wu Ming 1, che sulla nascita e prima diffusione del jazz è completamente incentrato. Non so, sarà il fatto (ingenuo e superficiale) che, dietro alla musica ascoltata oggi da gente ipersnob che sborsa cifre imbarazzanti per un biglietto al Blue Note, ci siano dei musicisti che in fondo non erano tanto lontani dai loro nipotini punk, per atteggiamento e spirito di autodistruzione. Ad ogni modo, a me il jazz non piace, ma Dancing On The Edge (sottotitoli qui) mi è piaciuto. Perché parla di quello che c’è intorno al jazz.

Siamo a Londra, negli anni ’30. La Louis Lester Band è un gruppo jazz composto da musicisti di colore inglesi e americani. Stanley Mitchell, invece, è un giornalista musicale che vuole essere più di un semplice critico e vuole partecipare direttamente alla storia della musica. L’incontro tra i primi e il secondo permette alla band di entrare nei salotti buoni di Londra, dando una botta alla carriera e alla popolarità di entrambi.

Dancing On The Edge (in onda su BBC 2, sei puntate) è quello che gli uffici stampa e i giornalisti retorici definirebbero un grande affresco della Londra aristocratica degli anni ’30, magnificamente raccontata attraverso la lente di una delle più grandi rivoluzioni musicali del secolo scorso. Due palle? Eh, detta così abbastanza. E in parte giustamente. Dancing On The Edge è la vetta delle serie patinate, in cui ricostruzione e stile hanno la meglio su tutto il resto. Per riuscire a far emergere la storia, l’autore e regista Stephen Poliakoff (un pezzo da novanta della televisione e del teatro britannici) ha dovuto puntare tutto su un pilot da un’ora e mezza, che permette sì di approfondire tutti i personaggi, ma che risulta anche un discreto mattone per chi è abituato a ritmi più agili.

Dancing On The Edge è un susseguirsi di scene esteticamente perfette, in cui i dialoghi subiscono come di riflesso il manierismo con cui è trattata l’immagine. Tutto è affettato e trattenuto, come se una parola o un tono di troppo rischiasse di rompere il vetro che protegge quella sorta di diorama che sta andando in onda. Nonostante tutto questo, Dancing On The Edge è tutto tranne che una brutta serie: la forza delle storie di questa epoca del jazz, cui accennavo prima, riesce comunque ad emergere e i personaggi, pur tantissimi, riescono ad avere una caratterizzazione personale che va oltre la sufficienza. Oltre alla vicende della band, ci sono parecchie sottotrame sentimentali, un gioco continuo di provocazione/reazione (nel senso di reazionario) e ogni tanto la scena è attraversata da quel mostro di carisma che si chiama John Goodman, nella parte di un ricchissimo neo-mecenate.

E poi, aspetto non da poco, c’è la musica. Lo so che ho esordito dicendo che il jazz non mi piace, ma qui la faccenda è diversa. Non c’è sperimentazione o traccia di jam, qui si parla di belle canzoni, suonate e cantate da dio. E non fa mai male.

Quindi vi sto consigliando fortissimo questa serie? Piano, dai. Diciamo che il pilot, con tutti i suoi difetti, porta a casa la pagnotta, ma l’ora e mezza è davvero, davvero impegnativa. Ci vuole motivazione per guardare questa serie.

Perché seguirlo: per l’assoluta originalità del contesto e dello sfondo della storia

Perché mollarlo: perché tutta quella patina rischia di attaccarsi addosso dopo pochi minuti

 

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