29 Marzo 2013 9 commenti

Netflix – Siamo alla fine delle serie tv? di Diego Castelli

Sta cambiando il concetto di serie tv. Ma siamo pronti?

Negli ultimi giorni i colleghi di BadTv si sono trovati a dare due notizie differenti relative a Netflix, il celebre servizio di noleggio dvd e streaming on line che di recente è diventato produttore originale di contenuti, primo fra tutti House of Cards (ma arriveranno anche Hemlock Glove, Orange is the new black e altre).
La prima notizia riguarda la quarta stagione di Arrested Development, che Netflix offrirà ancora una volta tutta insieme, con episodi pensati appositamente per essere a sé stanti, di durata diversa, giocati su punti di vista differenti e visibili nell’ordine preferito dallo spettatore, come se fossero tracce di un cd musicale piuttosto che classici episodi da serie tv (peraltro, anche la parola “tv” a questo punto è obsoleta).
La seconda notizia riguarda la possibilità che anche Spotify, il servizio di musica in streaming, possa decidere di cominciare a produrre contenuti audiovisivi da distribuire on line, esattamente come Netflix.

Ora, io potrei fare un post estremamente… come dire… aziendalista, perché queste dinamiche rischiano di avere un impatto molto forte sulle logiche produttive e commerciali dei soggetti che a vario titolo concorrono alla produzione di racconti audiovisivi. Ma un post così sarebbe troppo tecnico e probabilmente noioso sia per voi che per me.

Quello che qui mi interessa è capire i potenziali effetti di queste novità sulla nostra vita concreta, sul nostro essere serialminder.
Certo, noi possiamo ancora considerarci giovani e smart, perché sappiamo cosa vuol dire seguire una serie tv con passione e intelligenza, perché scarichiamo le puntate da internet e le accoppiamo con sottotitoli creati da un esercito di adorabili pazzoidi altruisti, perché ormai impariamo l’inglese più così che non a scuola, perché ormai siamo usciti o stiamo uscendo dalle rigide logiche dei palinsesti, e preferiamo costruirci da soli il nostro palinsesto personale, adattando il contenuto alla nostra vita piuttosto che la nostra vita al contenuto. Una rivoluzione, se ci pensate, un modo di accostarsi alla narrazione audiovisiva (ho scritto la parola “audiovisiva” tipo quattrocento volte, sorry) che i nostri genitori faticano a capire anche se gliela spieghiamo con dei disegni.

Ebbene, molto presto potremmo sentirci vecchi, potremmo trovarci nella condizione di doverci ri-adattare a uno scenario nuovamente rivoluzionato.
Esemplare è la considerazione che la mia amica Giulia mi ha fatto dopo aver letto quel post di BadTv: “Io non so se voglio avere serie intere tutte in una volta, rischio di non mangiare più, ho bisogno di ordine”.
Può apparire una preoccupazione eccessiva e scherzosa, e in parte lo è, ma ciò non toglie che il modo in cui finora abbiamo seguito le serie tv potrebbe cambiare radicalmente, con evidenti conseguenze anche sul modo in cui di serie tv si parla, per esempio su questo stesso blog.

Perché noi scarichiamo, bypassiamo la messa in onda italiana, vediamo le nostre serie preferite su supporti che fino a dieci anni fa parevano fantascienza. Ma in buona parte siamo ancora legati al concetto di palinsesto. Tra due giorni inizia la terza stagione di Game of Thrones: abbiamo atteso a lungo questa data, e sappiamo che ora ci aspettano diverse settimane in cui vedremo un episodio ogni sette giorni, che ci lascerà il tempo di parlare, di scrivere, di commentare con gli amici il giorno dopo. E’ una struttura, un ordine che la tv ci impone, che spesso viviamo come costrizione ma che acquista un senso in termini di supporto alla gestione del proprio tempo e di creazione di un tessuto comunicativo di portata ormai planetaria. Al lunedì si scarica Game of Thrones, cascasse il mondo, e al martedì si commenta Game of Thrones con gli altri impallinati come noi.
Ora però pensiamo alla prima stagione di House of Cards, che è stata resa disponibile tutta in una volta. Come ci rapportiamo, da un punto di vista socio-culturale, a un’operazione del genere?
Con tutti gli episodi già disponibili, chi ha tempo e voglia di fare la maratona può sapere tutto due giorni dopo la “messa in onda”, lasciando gli altri nell’angoscia di dover recuperare. Ma non è più possibile costruire quel senso di attesa collettiva, di visione virtualmente condivisa, perché il consumo si fa inevitabilmente più individualista: a ogni dato momento, ognuno è a un punto diverso del processo di fruizione e deve rimandare ogni commento alla fine, una “fine” che però potrebbe essere solo sua, perché gli altri sono rimasti indietro.
Una serie come House of Cards viene incontro alle necessità e ai desideri di chi non vuole avere alcun vincolo, di chi vuole decidere in totale autonomia come gestire la propria fruizione.
Un cambiamento epocale e, al primo impatto, straordinario. Ma è anche un cambiamento delle nostre abitudini sociali, perché rende obsoleto il concetto di attesa e visione comunitaria del prossimo evento settimanale, una pratica tra le più amate dai serialminder, da ben prima che esistessero facebook e twitter.
Capisco che non sarebbe una tragedia così clamorosa, ma pensate anche a questo: se tutte le serie fossero come House of Cards, io non potrei più scrivere i serial moments del lunedì.

Va anche detto che già ora ci sono persone che preferiscono collezionare tutti gli episodi di una serie e poi farsi la maratona, piuttosto che attendere spasmodicamente settimana dopo settimana. Per non parlare del nostro amato concetto di Recuperone. Un atteggiamento che probabilmente è anche alla base dell’operazione di Netflix, che punta a soddisfare tutti coloro che da sempre si lamentano della necessità di aspettare.
Ma siamo davvero sicuri che “aspettare il prossimo episodio” sia sempre così brutto? A me viene il forte sospetto che non avrei apprezzato Lost allo stesso modo, se non l’avessi visto con costanza per sei lunghi anni, attenendo l’inizio di ogni stagione con la stessa ansia con cui Ted Mosby aspetta di incontrare la sua futura moglie.

E che dire dell’impatto sulla memoria? Già ho i miei problemi a ricordarmi tutto ciò che ho visto a maggio, quando devo ricominciare una serie a settembre. Come la mettiamo se una stagione viene vista in una settimana, dovendo poi aspettare un intero anno per avere la prossima?

Si arriva poi alla sperimentazione creativa di Arrested Development, che porta fino in fondo una tendenza disgregante che la serie già aveva. Una sperimentazione che da un lato mi intriga molto, e dall’altro mi crea più di una perplessità: perché in fondo, per quanto io possa giocare al critico moderno che guarda sempre al futuro, forse non voglio affatto una serie in cui gli episodi possono essere visti a caso.
Perché sono convinto che la serialità, per sua stessa natura, dia il suo meglio quando riesce ad accompagnare lo spettatore in un percorso lungo, appassionante e coerente, che abbia un inizio e una fine e uno sviluppo costante.

E’ evidente che le sperimentazioni di Netflix non stanno per decretare la morte della narrazione seriale come l’abbiamo finora concepita, perché ci saranno sempre autori desiderosi di raccontare lunghe storie divise per episodi collegati tra loro. Succede dai tempi di Omero, non vedo perché dovremmo smettere ora. Quindi ben vengano i guizzi creativi, mai mettere vincoli all’arte e alla passione di chi cerca qualcosa di nuovo e mai visto.

Ma dobbiamo essere pronti, perché il panorama seriale è in subbuglio e non abbiamo un’idea precisa di ciò che accadrà in futuro. Molto presto potremmo trovarci a ricordare con nostalgia i tempi in cui potevamo arrivare a scuola la mattina sapendo che avremmo commentato quell’unico episodio che tutti gli altri avevano sicuramente visto. E saremo presi in giro da cuginetti e nipotini ormai abituati a spararsi intere stagioni in una notte, in una bulimia affamata che sembra davvero figlia dei nostri tempi, dove un cellulare strafigo è vecchio dopo sei mesi, dove un videogioco bellissimo quattro anni fa ora sembra un graffito su pietra della Val Camonica, e dove i social network traboccano di gallerie nostalgiche in cui i sedicenni ricordano commossi gli antichi giocattoli che usavano quando di anni ne avevano quattordici.

Gesù, presto potrei essere uno di quei vecchi che inizia ogni discorso con un amaro “Ehhhh, ai miei tempi era tutto diverso…”

E voi come la vedete? Solo entusiasmo, o anche un po’ di preoccupazione?
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