American Horror Story – L’Asylum ha chiuso di Diego Castelli
Finita la seconda stagione dell’horror targato Ryan Murphy
E alla fine anche l’Asylum chiude i battenti. Ancora una volta, Ryan Muprhy ha offerto al suo pubblico una stagione di American Horror Story che in realtà è una miniserie, con un inizio e una fine precisi e definitivi, in cui l’unico collegamento con l’anno passato (e futuro) sta nella faccia di qualche attore che ritorna.
Scrissi del pilot di Asylum in un 25 ottobre che a guardare il calendario sembra assai vicino, ma che in realtà è portato lontano da un gran numero di avvenimenti, da una densità narrativa apparsa ben più fitta rispetto a quella della prima stagione, che già non era esattamente “minimal”.
Per le considerazioni preliminari vi rimando a quel post, che dice cose ancora valide (se comincio a parlare troppo di me in terza persona, fermatemi): più che la storia, completamente cambiata, a ricreare il brand di AHS è lo stile visivo e dialogico, estremo e sperimentale, mai soddisfatto del livello di depravazione raggiunto, interessato a scavare nella psicologia di personaggi sempre più tormentati.
Gli autori di Asylum, in preda a una qualche forma di iperattività telefilmica, hanno pensato di non lasciare nulla da parte. Ecco dunque che l’oscuro ospedale psichiatrico, forse sufficiente già da solo a mettere le basi per una buona narrazione orrorifica, è stato farcito con elementi presi da branche dell’horror anche molto distanti, tra cui la lotta contro il Diavolo e i rapimenti da parte degli alieni.
Una bulimia che forse avrebbe potuto rifornire tre stagioni invece che una, e che si è rivelata probabilmente un po’ eccessiva: l’impressione è che troppi personaggi abbiano fatto cose troppo diverse, e che la necessità di trovare collegamenti tra le varie storie abbia finito col depotenziarle leggermente. E’ quello che accade con Kit e gli extraterrestri: non c’è niente che non vada in quella storia, così come non si notano particolari “errori” al momento di incastrarla nella trama più generale. Però alla fine della stagione rimane in bocca un vago sapore di incompiuto, come se le potenzialità di quel tema fossero state sfruttate solo in parte. Rimane la voglia, insomma, di vedere una stagione di American Horror Story tutta giocata sugli omini verdi che vengono a infilarci strane sonde in posti dove non dovrebbe entrare mai niente.
Sempre da questo problema deriva una certa confusione, verso la seconda metà della stagione, che ha tolto un po’ di pathos a momenti chiave della vicenda. Penso in particolare al suicidio del Dr. Arden, immolatosi nel forno dopo una vita di malvagità. Ancora una volta, eravamo sbatacchiati in un vortice di così tante storie contemporanee, da non sapere più quale fosse la più meritevole del nostro investimento emotivo. Per la serie “era un personaggio figo, ma quando è morto mi sono reso conto che non me ne fregava più di tanto”.
Sto dicendo che American Horror Story Asylum è stata una delusione? Ma buon Gesù, niente affatto! Avercene di cose così in televisione, prodotti in cui non si veda a ogni inquadratura la paura di pisciare fuori dal vaso e inimicarsi questa parte del pubblico o quella parte di clero. Ryan Murphy e soci hanno nuovamente pigiato a fondo sul pedale dall’acceleratore, e gli perdoniamo volentieri qualche squilibrio rispetto a una prima stagione che era apparsa un po’ più ordinata.
Detto questo, la valutazione complessivamente positiva è stata ampiamente influenzata dagli ultimi due episodi. Sì perché dopo un po’ che le storie sembravano pronte ad esplodere, senza però riuscire a fare il botto, gli sceneggiatori hanno deciso di terminare la serie con due puntate di anticipo. Di fatto, la maggior parte delle questioni si chiude ben prima del vero finale, e l’ampio spazio rimanente viene speso per raccontare il futuro: la vita di Kit dopo la liberazione, i successi di Lana come scrittrice, la triste fine della parabola di Jude, che da suora in carriera era diventata paziente confusa del manicomio che prima dirigeva.
Questa scelta, abbastanza straniante nei primi minuti, si rivela in realtà vincente: alla fine della serie, la leggenda di Briarcliff risulta ingigantita proprio dal fatto di mostrare dei personaggi che anche a distanza di anni devono gestire il loro passato nel manicomio. Il futuro di queste figure segnate dalla morte e dell’oscurità diventa ancora più potente perché non ci viene mostrata alcuna reale liberazione. Si può uscire “fisicamente” da Briarcliff, ma è impossibile uscirne “veramente”, perché il male subito e perpetrato in quel luogo di follia accompagna i suoi sventurati ospiti per sempre.
Il finale, poi, con Lana che uccide il figlio nato da Faccia di Sangue, è emblematico del laborioso lavoro di atmosfera fatto sull’intera stagione: Briarcliff è chiuso (il titolo dell’ultima puntata è perentorio, “Madness ends”), e l’ultima discendenza del temibile serial killer è distrutta. Ma non c’è gioia negli occhi di Lana, divorata da anni di senso di colpa per aver permesso alla sua ambizione giornalistica di causare più o meno direttamente una gran mole di malvagità.
In questo senso, e come già era prevedibile fin dalla premiere, Asylum è molto più nera e tragica rispetto alla prima stagione di American Horror. Non si salva praticamente nessuno, non ci sono piacevoli siparietti familiari post-mortem, non c’è alcuna luce di speranza in fondo al tunnel di disperazione. Sta anche qui il coraggio di un show che quest’anno non ha guardato in faccia nessuno. Poteva essere un po’ meno dispersivo, e magari poteva evitare di prosciugare l’intero calderone dell’horror per una sola stagione (cioè, quale può essere la fonte d’orrore del prossimo anno? Mignoli contro gli stipiti? Nutella finita? Una partecipazione straordinaria di Ellen Pompeo?). Ma non è che puoi metterti a fare le pulci al genio, è così è basta.
Ad ogni modo, per il prossimo anno Ryan Muprhy ha promesso più romanticismo e un tono leggermente più leggero. Una variazione di tono che accogliamo con piacere, giusto per eliminare un po’ di tendenze suicide sbocciate durante questa stagione. Basta che non sia Glee con gli zombie, che vabbe’, a tutto c’è un limite.