Parade’s End – La pessima copia di Downton Abbey di Marco Villa
Proprio una roba brutta eh
Dice: abbiamo fatto una serie che ha sorpreso tutti per successo e qualità, non solo qui in Inghilterra, ma pure in America. Un caso isolato, oppure abbiamo trovato la formula magica? Nel dubbio, proviamoci.
Me l’immagino così il ragionamento che ha portato alla realizzazione e messa in onda di Parade’s End, serie inglese che si svolge nei primi anni del 900, a cavallo della Grande Guerra, ambientata nelle famiglie bene del regno di sua maestà e con le manifestazioni per il voto femminile sullo sfondo. Capito adesso qual è la serie di successo che si è cercato di replicare? Ovvio, Downton Abbey, citata in maniera esplicita all’inizio del pilot, con tanto di inquadratura dei campanelli che chiamano al servizio i camerieri.
Più o meno stessi temi, quindi, ma risultati opposti. Sì, perché Downton Abbey è quello che conosciamo: una serie certo non perfetta, ma piena di forza e di storie. Parade’s End, invece, è semplicemente un insieme confuso di nomi e azioni.
Protagonista è Christopher Tietjens, interpretato da un Benedict Cumberbatch (a.k.a. Sherlock) con una porzione media di polenta in capo, facoltoso gentiluomo ancorato a codici di un mondo che si sta dissolvendo. Quel mondo che esalta le apparenze e le parate, da cui il titolo. Tietjens è un personaggio tutto d’un pezzo, che non lascia trasparire le emozioni, ma in realtà soffre interiormente come un cucciolone e piange di nascosto ogni due scene. Una specie di versione ugualmente geniale, ma ancor più repressa e frustrata di Sherlock, appunto. Ma con la mela grattugiata in testa, non dimentichiamolo. La vita del protagonista è tormentata da sua moglie, donna splendida e libertina che lo cornifica a piè sospinto e senza nemmanco nasconderlo. Lui però, per una questione d’onore, non vuole divorziare. La faccenda diventa drammone d’ammore quando lui si innamora di un’altra.
Storia in fondo non così complessa, vero? Peccato che Parade’s End la racconti con 800 personaggi e una quantità di scene e dialoghi che dovrebbero aiutare a dare senso e atmosfera, ma che in realtà rendono la serie un elenco di cose e non una storia. Un problema forse riconducibile all’adattamento dall’opera letteraria (saga di grande successo pubblicata negli anni venti), ma che porta a un solo risultato: Parade’s End è inguardabile. Non ci si lega ai personaggi, si fatica a capire cosa succede e perché.
E dire che l’inizio è veramente promettente. Nei primi cinque minuti non si contano i flashback, per un mischione delle linee temporali che dà subito una botta d’interesse e di immersione. Una frenesia che, però, si trasforma presto in confusione e in mancanza di tono. Si passa da parentesi quasi slapstick (gendarmi baffuti che inciampano e cadono) ai già citati pianti del protagonista abbracciato a un cavallo. Abbracciato. A. Un. Cavallo. E no, non è Nietzsche, ma Benedict Cumberbatch con un puré al posto dei capelli. Capite, allora, che siamo di fronte a più di un problema.
Perché seguirlo: perché non appena c’è aria di primi novecento voi sbarellate
Perché mollarlo: perché un pilot così è la peggiore presentazione possibile per una serie. Magari migliorerà, forse diventerà una bomba. Ma non si può iniziare così, dai.