Longmire – Sceriffi e Wyoming. E Katie Sackhoff! di Diego Castelli
Un crime che sembra un western, o un western in salsa crime?
Sul mondo della serialità americana comincia a spirare un forte vento da ovest.
Anche nei telefilm, come al cinema o in letteratura o in musica, i generi e i temi si rincorrono, salgono e scendono, scompaiono e ritornano. E a giudicare dalle ultime settimane, pare che il western sia pronto a fare ritorno in massa sul piccolo schermo.
Abbiamo iniziato in autunno, con Hell On Wheels, serie di buona fattura anche se non ancora all’altezza delle altre produzioni di AMC. Pochi giorni fa è stata la volta di Hatfields & McCoys, miniserie in onda su History Channel – ne parleremo nei prossimi giorni – che ha fatto registrare ascolti da record, tanto che subito la macchina di Hollywood si è messa in moto per altre storie ambientate nello stesso periodo (dalla Guerra Civile in poi) o ispiratesi a quella ben nota (almeno oltreoceano) faida familiare.
E oggi siamo qui a parlare di Longmire, nuovo show di A&E, che è ambientato ai giorni nostri, è un crime con delitti e investigatori, ed è praticamente privo di equini sellati, ma è comunque un western fatto e finito.
Protagonista è Walt Longmire (Robert Taylor), sceriffo della contea di Absaroka, Wyoming: un uomo duro, vecchio stampo, che parla poco ma sa farsi sentire, da poco vedovo e perciò tendente al tristume, ma non per questo incapace di fare il suo lavoro dannatamente bene.
Ad aiutarlo nelle sue avventure c’è soprattutto (per noi serialminder) la vicesceriffo Vic, interpretata da Katee Sackhoff, indimenticata protagonista di Battlestar Galactica, mentre a supportarlo nel dolore familiare c’è la figlia Cady (Cassidy Freeman, vecchio volto di Smallville).
A mettergli i bastoni tra le ruote troviamo invece l’altro vicesceriffo, Branch, abile nelle pubbliche relazioni e a impressionare le signore con la sua pistola (non è una metafora, maiali), ma poco incline a sporcarsi le mani col lavoro duro. Insomma, un fighetto fastidioso, che vuole strappare a Longmire la carica di sceriffo alle prossime elezioni. Elezioni che Walt punta a vincere, perché fare campagna elettorale è uno sbattimento, ma lasciare la contea a Branch sperando che la protegga è come lasciare una coniglietta di Playboy a Sheldon Cooper sperando che sappia cosa farne.
Ma si diceva del western. Walt Longmire è in realtà un personaggio di carta, nato dalla penna del romanziere Craig Johnson, che figura anche tra i creatori dello show. E basta una foto di questo tizio (eccone una) per capire che anche se si cimenta col crime, evidentemente il western ce l’ha nel sangue.
In questo senso, Longmire è sì un investigativo abbastanza tradizionale, con un poliziotto che indaga sui casi più vari usando il suo intuito e la sua esperienza per acchiappare i delinquenti. Ma quello che conta non è tanto il “cosa”, bensì il “come”.
Tutto, nel pilot di Longmire, trasuda vecchio West: c’è il Wyoming, terra di grandi spazi, montagne innevate e pascoli verdeggianti. C’è un protagonista segnato nell’animo ma ancora robusto, piegato ma non spezzato, vestito con stivali e cappello a tesa larga, con la stella di latta sul petto e una morale integerrima. Ci sono gli indiani (tra cui il mitico Lou Diamond Phillips), ci sono gli amish (più o meno), ci sono tecniche di indagine che i colletti bianchi di un CSI qualunque guarderebbero con estremo sospetto (Longmire annusa il fucile della vittima per capire se ha sparato, altro che Grissom e la scientifica e le provette e i guanti bianchi).
Ma non è solo una questione di personaggi o temi. Il West permea anche i dialoghi, pieni di frasi maschie e virili, secchi scambi di battute e un gusto esplicito per il colpo ad effetto. Per non parlare della messa in scena, dove si sprecano le inquadrature “da duello”, i piani lunghi e intensi e un’attenzione molto marcata per i piccoli dettagli significativi.
Oh, se non si fosse capito Longmire mi è piaciuto. Probabilmente sono un po’ di parte, perché pur non essendo un esperto del genere ho sempre avvertito una certa fascinazione per l’atmosfera polverosa del vecchio west, per i suoi tramonti, la sua strana moralità, i suoi silenzi e i suoi scoppi improvvisi. Tutto ovviamente dalla comodità del mio divano e senza mai la voglia di avvicinare un cavallo se non in un videogioco.
Detto questo, e sforzandomi di essere quanto più obiettivo possibile, Longmire ha i suoi talloni d’Achille. Prima di tutto non è un fulmine di guerra, ha un passo molto più lento rispetto ad altri crime di successo, pur mantenendo (almeno nel pilot) una struttura a “caso di puntata” abbastanza verticale.
Ma il problema potenzialmente più grande, per voi non-americani che mi state leggendo, riguarda proprio ciò che a me tanto piace: per molte persone il western ha poco di epico e molto di ridicolo, specie in un’ambientazione moderna in cui cappelli da cowboy, fibbione dorate e stivaloni di cuoio fanno pensare a qualche emulo di Walker Texas Ranger, piuttosto che a pubblici ufficiali a cui affidare la sicurezza della città. La posizione della linea di demarcazione tra il “figo vintage” e il “vecchio patetico” la lascio decidere a voi, ma sappiate che Longmire ci bazzica proprio vicino, probabilmente perché ama il rischio.
Il primo episodio è stato il più visto della storia di A&E, e il debutto migliore per un drama cable nel 2012, sul target 25-54 anni. Come se non bastasse, il secondo episodio è cresciuto, e pure tanto, con un +22% sui 18-49enni, e di un 14% sui 25-54enni.
Insomma, le basi sono solide, l’atmosfera gagliarda, non ce lo chiudono tra due giorni, e raramente ho avuto così voglia di vedere un secondo episodio dopo il pilot di una serie poliziesca. Poi è estate, lo seguirei anche se fosse molto, ma molto meno bello di così.
Perché seguirla: l’azzeccato miscuglio di generi, i bellissimi paesaggi, i dialoghi asciutti e ficcanti. Ah, e ovviamente Katie Sackhoff.
Perché mollarla: è più lenta rispetto ai normali crime, e l’atmosfera western può non piacere.
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