Game Change – Il film di HBO su Sarah Palin di Angela Maiello
Il film di HBO sulle elezioni presidenziali americane del 2008
E’ vero, questo sito si chiama Serial Minds e tratta di cose a episodi. E Game Change non è una cosa a episodi, ma un film prodotto da HBO. Però – appunto – è prodotto da HBO. E poi è molto interessante. E poi avevamo una valente collaboratrice che ha seguito da vicino le elezioni presidenziali USA del 2008. E poi, in fin dei conti, il sito è nostro e facciamo un po’ quello che ci pare (MV)
La prima volta che ho visto la faccia di Anderson Cooper fu nel Cnn-Youtube Democratic Debate: era il 23 luglio 2007 e la corsa 2.0 alle presidenziali americane era appena cominciata. Da lì in poi Anderson Cooper è diventato come uno di famiglia, il Floris americano alle cui imparzialità ho affidato ogni speranza nel lunghissimo periodo intercorso tra il super tuesday di febbraio e il 2 novembre 2008, il giorno delle elezioni vinte da Barack Obama.
È con un’intervista di Cooper a Steve Schmidt, senior strategist della campagna di John McCain, che comincia Game Change, racconto della corsa repubblicana alle elezioni presidenziali statunitensi del 2008, dominata dall’inaspettata presenza della figura di Sarah Palin, interpretata da Julianne Moore. Il film, trasmesso da HBO il 10 marzo, ripercorre, in maniera forse un po’ troppo puntuale, il periodo che va dalla nomination di John McCain fino alla sconfitta elettorale: a dettare (implicitamente) le regole del gioco arriva il governatore dell’Alaska, considerata l’unica possibilità strategicamente vincente da opporre alla nascente celebrità democratica. Ma se c’è una cosa bella dei giochi è che talvolta le regole che tu stesso imponi ti sfuggono di mano e Sarah Palin diventerà un personaggio da gestire molto più ingombrante e complesso di quanto previsto.
Può sembrare paradossale decidere di ricostruire dalla prospettiva degli antagonisti il racconto di quel momento ormai già storico, in cui quelle famose three words hanno risvegliato globalmente il sopito animale politico di ognuno di noi. Eppure è proprio la caratterizzazione accurata e non partigiana dell’altra parte a salvare il film dall’esito più prevedibile, cioè la retorica populista del “sono tutti uguali”. Se pensiamo infatti al Clooney-Obama de Le idi di marzo, lì non ci viene consegnata nessuna verità che già non conoscessimo, ossia che tutte le elezioni si vincono solo se si crea una perfetta sinergia tra il prodotto, il marketing e il principio de “il fine giustifica i mezzi”.
Game Change invece mette a segno un colpo decisivo: pur rinunciando a ogni velleità artistica (ad esempio immagini di repertorio e finzione-recitazione avrebbero potuto essere montate in maniera molto più significativa, invece di ricercare l’imitazione perfetta) il film riesce nel delicato compito di raccontare davvero l’America agli Americani, anche a quella parte o forse soprattutto a quella che ha votato per il cambiamento. E di farlo a pochi mesi dalle elezioni.
Game Change non è solo un film su Sarah Palin, è un film che racconta l’altra faccia della medaglia del sogno americano: la provincia, la semplicità, la famiglia numerosa con il cane, l’apparenza, la preghiera, la terra, l’ignoranza giustificata dalla presunta genuinità e dai buoni sentimenti ad ogni costo. Questa America esiste ed è forte, tanto quanto le rivendicazioni più metropolitane di uguaglianza, libertà e giustizia sociale. E anche questa America, come l’altra, esercita un fascino viscerale ed inelaborato su ognuno di noi. Due immaginari contrapposti sullo sfondo di un unico sentimento, quello dell’orgoglio e dell’appartenenza alle gloriose stelle e strisce.
“I didn’t vote!” confessa Nicole Wallace, una degli addetti alla comunicazione, dopo aver riferito che la Pennsylvania è ormai persa. E la drammaticità della scena, sullo sfondo della realpolitik, può apparire a prima vista come un’americanata fuori luogo. Di lì a poco McCain avrebbe preso la parola per complimentarsi con Obama mentre il pubblico inneggiava a Sarah Palin. A Chicago la gente cominciava a radunarsi a Grant Park per assistere ad uno dei discorsi più emozionanti della più avvincente campagna elettorale. In Italia era notte, ma forse eravamo in tanti, americani e non, ad aspettare l’alba per poter dire “io c’ero”. E allora, a pensarci bene, sono comprensibili le lacrime di Wallace: stratega ma non cittadino partecipe, che ha perso l’occasione di essere protagonista di quella che a ragione viene chiamata “the race of a lifetime”.