Alcatraz – Il finale di stagione di Marco Villa
I due migliori episodi della serie. Probabilmente anche gli ultimi.
Fine. Fine? Fine. E incazzatura. Su, non si può schiacciare la X di VLC, al termine della tredicesima puntata di Alcatraz, e non essere incazzati. Ci fosse la certezza di una seconda stagione, forse sarei quasi entusiasta. Essendoci però la quasi certezza di una chiusura non si può essere soddisfatti.
Il motivo è presto detto: n queste due puntate conclusive, Alcatraz ha dimostrato per l’ennesima volta di avere un potenziale enorme e (non per l’ennesima volta), l’ha anche messo in mostra. Tutte le sottotrame orizzontali tirate a un punto di svolta, con l’aggiunta di un minicaso di giornata (l’irruzione e rapimento in casa), che, pur essendo del tutto funzionale al racconto orizzontale, è stato comunque degno d’interesse. Che è un po’ la cifra di tutta questa serie, come ho avuto modo di scrivere fino a sembrare un vecchio che dice sempre le stesse cose.
Si diceva: il potenziale. Alcatraz ha un potenziale enorme e l’elemento più forte è la stessa Alcatraz. È stato chiarissimo nella puntata con i due fratelli rapinatori, è stato palese nell’ultimo episodio: non appena si passa più tempo sull’isola e si scende nei sotterranei e nei cunicoli, la tensione e l’interesse salgono. Basterebbe questo per tenere in piedi una stagione di livello. Il buono è che non c’è solo questo. La rivelazione finale di una sorta di esercito di quelli del ’63, di una specie di para-intelligence illegale formata da criminali può far storcere il naso, ma, di nuovo, le potenzialità sono enormi, con la possibilità di trasformare il direttore in una specie di J. Edgar Hoover occulto.
Peccato che, salvo miracoli, non vedremo niente di tutto questo e l’inquadratura sul volto di Sarah Jones potrebbe essere l’ultima della serie. Piccola pippa metaforica: confrontate questa inquadratura con l’ultima di Homeland. Praticamente la stessa immagine, ma là c’è una Claire Danes alive and kicking, qui una protagonista con elettrocardiogramma piatto. Simbologia portami via.
.
Il finale di Alcatraz è apertissimo ed è una sfida diretta al network, come a dire: guardate di cosa siamo capaci. E ancora, uno dei produttori esecutivi, Daniel Pyne, in un’intervista dice che una seconda stagione avrebbe connessioni molto più forti tra casi di giornata e storia generale, con cospirazioni arditissime e la creazione di una mitologia intorno al cattivone Harlan.
E la domanda sorge spontanea: perché non l’avete fatto prima? È facile, troppo facile dire che in futuro sarà diverso, che finalmente ci sarà tempo per creare qualcosa di formidabile. Alcatraz è una serie che ci è piaciuta (non è plurale maiestatis, è plurale serialmindis), ma gli episodi di lunedì hanno mostrato che si sarebbe potuto osare di più. Che si sarebbe dovuto osare di più. Sarebbero bastati due elementi più presenti: quella stanza segreta e un cattivo vero che entrasse in scena con forza un po’ prima della penultima puntata.
Quindi sì, c’è l’incazzatura. C’è soprattutto un senso di scarsa comprensione nei confronti del meccanismo che porta la televisione, ovvero il mezzo popolare per antonomasia, a fregarsene così del proprio pubblico. Per dire, Parks and Recreation ha già pronti due finali: uno in caso di rinnovo, uno in caso di cancellazione. È un segno di rispetto per il pubblico, un’opzione che le reti stesse dovrebbero considerare come basilare, anche perché, alla fine, per i fan sono i network i malvagi che dicono basta e non sarebbe male come operazione salva-immagine. Ma vabbè, sto divagando. È giusto il caso di ribadire l’incazzatura e di sperare in un mezzo miracolo.