The Walking Dead – Grande stagione e finale controverso di Diego Castelli
Dai,
OVVIAMENTE NON POTETE LEGGERE L’ARTICOLO SE NON AVETE VISTO L’ULTIMO EPISODIO DELLA SECONDA STAGIONE!!!
Una domanda cruciale – di carattere strutturale, narrativo, oserei dire semiotico – caratterizza l’ultima puntata della seconda stagione di The Walking Dead:
Cosa cazzo fai quando hai piazzato l’evento più importante della storia nel PENultimo episodio?
Perché questa è la questione che sta tenendo banco tra gli appassionati, gli estimatori, i detrattori.
Diciamo prima un paio di cose che, ripetute da me, suonano ormai superflue e noiose. E chiedo perdono. Ma è stata una stagione mirabolante: The Walking Dead è una delle migliori serie in circolazione, punto. Impressionante la capacità di rispondere alle restrizioni del budget (rimpicciolito rispetto alla stagione precedente) con una scrittura densa e potentissima, in cui le tensioni tra i personaggi si caricano costantemente di energia ed esplodono nei modi più svariati, scavando nel profondo del nostro essere “umani”, ragionando sui confini di quella stessa umanità, composta da intelletto e valori condivisi, ma anche da bisogni primitivi che se ne fottono della morale.
Non voglio dilungarmi troppo su questi concetti, ne abbiamo già parlato. E’ giusto però dire che questa tensione culmina proprio nel penultimo episodio, in cui il conflitto sempre più evidente tra Rick (custode di strenuo raziocino e valori civili) e Shane (promotore della selezione naturale, della legge della giungla) raggiunge il momento della più classica sfida finale. Una sfida che di certo ci aspettavamo, ma il cui esito – la morte di Shane – è arrivato abbastanza inaspettato. Personalmente, e senza aver letto il fumetto, pensavo che Shane sarebbe durato molto di più, magari in nuove vesti, in nuovi gruppi o chissà cosa, ma comunque vivo e vegeto, pronto a far pesare ancora a lungo la forza delle sue convinzioni (che, ricordiamolo, non sono tutte cazzate, altrimenti la cosa sarebbe ben poco interessante).
E invece no, duello simil-western e via, accoltellamento e cervello spappolato. Una scelta forte e assai coraggiosa, che colpisce lo spettatore come un pugno e lo lascia col grande dubbio: o mamma, e adesso?
Qui arriviamo all’ultimo episodio, che assai difficilmente poteva mantenere lo stesso livello di tensione e sorpresa, e che infatti molti hanno trovato meno potente, se non addirittura “insipido”, come ha scritto una di voi su twitter. Qualcuno ha sostenuto che la seconda stagione doveva concludersi con la morte di Shane e la visione in lontananza della massa di zombie in avvicinamento. Sarebbe stato un finale indubbiamente accettabile, di cui avrei scritto un gran bene.
Però la partita non è chiusa. Dire che quell’episodio sarebbe stato un buon finale non significa necessariamente dire che quello effettivo sia “sbagliato”. Perché sbagliato non è. Anzi, da un certo punto di vista è molto più giusto.
Se la stagione fosse finita con la morte di Shane, avremmo semplicemente perso uno dei più potenti catalizzatori d’attenzione della serie, avrebbe vinto il “buono”, e l’unico problema sarebbe stata l’orda di zombie. Che è un problema mica da poco, voglio dire, ma risulterebbe ormai banale per un prodotto come questo.
Ecco allora che l’episodio finale, più che concludere il discorso, ne apre uno nuovo.
Prima di tutto risponde in maniera chiara (quasi liberatoria) a chi aveva mosso una critica apparentemente paradossale: in questa “serie con gli zombie” ci sono pochi zombie. Che è anche vero: in parte per scelta e in (gran?) parte per questioni economiche, la seconda stagione di The Walking Dead è stata relativamente povera di scene di massa e violenza con i non morti. L’ultima puntata, quasi a farsi perdonare, dedica un buon quarto d’ora all’invasione della fattoria da parte dei “walkers”, che vengono sterminati a decine, ma che riescono comunque a mietere importanti vittime tra i nostri poveri sopravvissuti. Profluvio di sangue, urla e arti mozzati, e gli amanti dello splatter dovrebbero essere accontentati, almeno per ora. E non si dimentichi di notare un dettaglio interessante: l’orda di zombie comincia a muoversi dalla città (e verso la fattoria) solo perché incuriosita da un elicottero di passaggio. Un particolare significativo per sottolineare ancora una volta la crudele arbitrarietà del caso, che muove le proprie pedine in maniera imprevedibile, con effetti farfalla che neanche Fringe.
Poi inizia la nuova fuga, l’ennesima ricerca di un posto dove stare.
E’ qui che si comincia a preparare il terreno per il futuro, è qui che gli autori mostrano di avere sotto due coglioni così, e di poter seguire lo sviluppo dei propri personaggi in un processo lungo e articolato.
Soggetto principale di tale sviluppo, nell’episodio in questione, è ovviamente Rick, che è uscito dallo scontro con Shane in modo tutt’altro che pacifico. Non solo perché ha ucciso il suo migliore amico, ma anche per il modo in cui si è avvicinato a quella sfida, e per le conseguenze che ha su di lui.
Prima di tutto, Rick dice a chiare lettere che ormai desiderava la morte di Shane. E’ un’ammisione sorprendente, per il personaggio tutto cuore e giustizia, che sottolinea una volta di più la difficoltà di rimanere civili e giudiziosi in un tale posto di merda. Shane minacciava lui, la sua donna, suo figlio, e lui lo voleva morto. Puro e semplice. E diciamolo, comprensibile. Una presa di coscienza dolorosa e fondamentale, un passettino verso il lato oscuro.
Il portato di questa presa di coscienza è infatti un cambiamento radicale della figura di Rick: il nostro sceriffo, provato da sacrifici e pericoli continui, finisce con l’avvicinarsi proprio alla posizione che tanto osteggiava. Guardate attentamente come parla e come si muove nel fondamentale monologo finale intorno al fuoco: ormai è “diventato” Shane, e il suo discorso culmina con un “questa non è una più una democrazia”, che ho trovato un capolavoro. Rick ha ucciso Shane, ma invece di cancellarlo l’ha in qualche modo assorbito, introiettato. Shane ha vinto, perché gli eventi hanno imposto al suo nemico di adottare il suo punto di vista: basta con i lunghi discorsi, basta con i piagnistei e con i capricci. Ora comanda uno, e uno solo, e se non vi sta bene ciao, ve ne andate.
Ancora una volta, The Walking Dead ragiona sulla complessità di una situazione impossibile, stressando i suoi personaggi fino a un livello tale per cui ogni certezza, ogni valore e ogni fede è pronta a crollare, rivelando aspetti del proprio animo che non pensavano di possedere (Hershel dice “Cristo aveva promesso la resurrezione dei morti, pensavo solo che avesse in mente qualcosa di diverso”… idolo!).
Questo per quanto riguarda i personaggi che già conosciamo. Perché ci sono tanti altri dettagli, in questo episodio, che spingono all’applauso: la vecchia scritta dedicata a Sophia sul parabrezza dell’auto (brividi), la comparsa del nuovo misterioso personaggio simil-samurai che salva la combattiva Andrea (SPOILER: si tratta di Michonne, figura tra le più amate della graphic novel), la visione finale di quel lontano carcere che sembra destinato a essere la prossima meta del gruppo, con chissà quali novità e risvolti imprevisti. Soprattutto, la consapevolezza che potrebbero essere tutti infetti, sorta di ombra luttuosa che offusca qualunque luce di speranza, e che comincia subito a minare la fiducia in Rick, che aveva nascosto l’informazione ai compagni.
Ne ho sentite tante in questi ultimi tempi. Ho sentito parlare di casualità, di trame raffazzonate, di personaggi piatti. Mi pare l’esatto contrario: siamo di fronte a una delle serie più calibrate, profonde e complete che mi sia capitato di vedere negli ultimi anni. Non priva di difetti, dal tratteggio solo abbozzato di alcune figure (vedi T-Dog), passando per l’interessante riflessione della Minetti sul maschilismo. E con un finale di stagione un po’ rischioso e per qualcuno deludente.
Ma che non dimentica che più di ciò che è passato, conta ciò che deve ancora arrivare.
Ecco, a proposito: quando arriva l’autunno? Sono già in astinenza…